Ambiente

Africa: l’acqua che (non) c’è

Mentre il deserto avanza, gli scontri per l’accesso alle risorse idriche tra agricoltori e pescatori stanno diventando molto violenti, con uccisioni e incendi di villaggi. Una muraglia verde – forse – ci salverà
Credit: ANSA/ UFFICIO STAMPA
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20 dicembre 2022 Aggiornato alle 06:30

Nel 2018, in Nigeria ci sono stati di nuovo sanguinosi scontri tra pastori nomadi e agricoltori a causa della carenza d’acqua, scontri dove spesso il contrasto è acuito dall’appartenenza a diverse etnie e anche religioni (si stimano tra le duemila e tremila uccisioni dal 2016 al 2018, e l’imprecisione dei dati dovrebbe indurre a pensare in quali difficoltà possa trovarsi un paese enorme che non riesce ad avere neanche l’anagrafica delle morti).

Del resto che l’acqua possa costituire fonte di contrasto per il suo accaparramento non è cosa nuova neanche a noi occidentali, basti pensare al bellissimo film Chinatown di Roman Polanski, che, all’interno di un noir romantico, racconta la storia della guerra dell’acqua del ‘900 a Los Angeles.

Tornando all’Africa, se il contrasto allevatori (quasi mai stanziali) e agricoltori non è cosa nuova, ormai si assiste allo scontro da allevatori stessi, ma di diverse specie animali.

È di questi giorni, il contrasto nel nord est del Camerun che si sta realizzando tra allevatori di bestiame e i pescatori di pesce d’acqua dolce, che realizzano canali d’acqua secondari rispetto ai corsi d’acqua fluviali per facilitare l’assembramento e quindi la pesca dei i pesci. L’abbeveramento del bestiame su tali canali pone a rischio la pesca.

E come anticipato, i contendenti appartengono a gruppi diversi, gli allevatori sono conosciuti come Choua Arab, mentre i pescatori costituiscono il gruppo dei Mousgoum.

La situazione è tale che recentemente vi sono stati scontri assai violenti tra le due opposte fazioni, con uccisioni e incendi di villaggi. Si parla di 150 uccisioni e di circa 30.000 persone fuggite nel vicino Ciad.

L’effetto concorrente di conflitti locali e il cambiamento climatico rendono la situazione assai critica, se si pensa anche che il cambiamento climatico diventa a sua volta causa di conflitto.

Un’altra causa di migrazione forzata che porta con sé il dolore di fugge dalla morte e dalla fame e accende l’attenzione ai solerti difensori dei patri confini.

Tutta la regione del Sahel soffre da anni della siccità, che vede avanzare il deserto in zone che prima erano verdi. E come il deserto avanza, diventa sempre più difficile trattenere l’acqua quando essa scende dal cielo.

Per questo in varie zone si sta ricorrendo ai sistemi di adattamento climatico, che ricorrendo alla saggezza contadina creano substrati di terreno riempiti di scarti vegetai e deiezioni animali, per creare zone di accumulo dell’umidità che lentamente viene rilasciata a favore delle coltivazioni. Impianti solari possono poi aiutare a pompare l’acqua dal sottosuolo. Nello stesso tempo si tende a arginare il deserto attraverso le piante di palma, spesso utilizzandone i rami per proteggere i raccolti, o costruendo piccoli muretti, arginando così la sabbia che avanza.

Si pensi alle tecniche introdotte da Yacouba Sawadogo, che in Burkina Fasu in 40 anni ha riconquistato 40 acri dal deserto (circa 16 ettari).

In una vasta zona in cui un tempo esistevano i più potenti regni dell’Africa (si pensi al regno del Mali e alla mitica Timbuctu), ora si trova il deserto creato dalle siccità ma anche dal dissennato utilizzo delle zone verdi da parte del genere umano. Per questo da anni è in corso il progetto della grande muraglia verde per arginare l’avanzata del deserto attraverso una cintura di alberi, scelti (o che dovrebbero essere scelti) in funzione delle caratteristiche dei terreni, che dovrebbe consentire il trattenimento delle acque piovane, limitare l’evaporazione e creare occupazione e sostentamento per le popolazioni interessate.

Certo piantare alberi può non bastare, se non si coinvolgono le comunità locali e non si procede per passi ponderati: ne è un esempio la grande muraglia voluta dai Cinesi per arginare il deserto del Gobi, dove spesso si è guardato più al risultato degli alberi piantati che a vedere quali siano stati gli effettivi risultati (ciò fa un poco pensare con ironia a certi conta alberi automatici che sciorinano numeri crescenti senza dirci poi quanti ne sono rimasti): con tutti i suoi limiti anche l’esempio cinese ha comunque condotto a risultati positivi (almeno sulla base dei dati ufficiali e delle rilevazioni satellitari).

Resta il fatto che il contrasto al deserto non è facile e le incognite sono tante, ma al momento non si palesano altre alternative.

Da qui sorge ironica la constatazione che forse per fare dormire sonni tranquilli ai solerti difensori dei confini dei vari stati europei, più che di parlare di recinzioni ai confini o blocchi navali, consci che nella storia né valli né muraglie hanno mai efficacemente posto limiti alle migrazioni dei popoli (basti pensare all’Impero romano che certo non si faceva scrupoli per rendere sicuri i propri confini) , forse sarebbe meglio pensare a una muraglia verde composta da alberi: alberi sì, non solo piantati nei nostri parchi e giardini, ma anche lontani da noi per fermare il deserto che avanza come la grande nebbia del Nulla che piano piano inghiotte il regno di Fantasia della Storia Infinita, basterebbe anche questa volta immaginare, immaginare diverso, non più bastioni e torrette ma un grande muro verde.

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