Futuro

Immaginare gli umani

Come diventeremo? Supponendo di sopravvivere al climate change, presenteremo con ogni probabilità radicali cambiamenti. Ma quali?
Credit: Tara Winstead/ Pexels
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1 dicembre 2022 Aggiornato alle 06:30

Le specie viventi evolvono: mutano, si separano in diverse altre specie, si estinguono.

Tipicamente una specie di mammiferi può durare un milione di anni. E poiché homo sapiens ha una storia che più o meno è partita 300 mila anni fa, c’è tempo per generare molti cambiamenti.

Anche perché gli umani non si limitano a mutazioni genetiche, ma hanno la capacità di generare trasformazioni pure per via culturale e tecnologica, come spiega Michael Tomasello nel suo libro Diventare umani (Raffaello Cortina 2019).

Del resto, già oggi gli umani sono in grado di modificare il Dna, anche se non sanno quali conseguenze avrebbe una mutazione indotta per via tecnologica nel loro patrimonio genetico. Ma nei prossimi 700.000 anni hanno la possibilità di provare: e se possono, probabilmente lo faranno. Anche perché dovranno adattarsi al surriscaldamento del pianeta che hanno causato negli ultimi due secoli. E dunque: come diventeranno gli umani?

Anche all’università di Oxford si pongono questa questione. E cercano di definire degli scenari adatti a rispondere. Anders Sandberg, che lavora al Future of Humanity Institute all’università di Oxford, ne ha scritto per esempio su The Conversation. Il suo approccio lo conduce a studiare le possibilità e a costruire scenari futuri a partire da quello che vede accadere oggi.

Il punto di partenza è la quantità di attività umane dedicate all’allungamento della vita, al miglioramento dell’intelligenza e dello stato d’animo, al potenziamento del corpo. Ma si sa che le tecnologie usate per ottenere questi risultati non convincono tutti gli umani: modificare il Dna e impiantare chip nel cervello non sono soluzioni accettabili per tutti, anche se dovessero diventare poco costose. Ma alcuni umani potrebbero accettare queste soluzioni. Il che condurrebbe, generazione dopo generazione, a cambiamenti tanto radicali da poter essere definiti come la creazione di nuove specie.

Secondo Sandberg, questo potrebbe equivalere alla persistenza di “veri umani”, non modificati, contemporaneamente allo sviluppo di “post-umani”, modificati. L’immagine che Sandberg propone è quella che fa riferimento a qualcosa che conosciamo: la vita dei “veri umani” potrebbe assomigliare a quella degli Amish mentre la vita dei “post-umani” potrebbe essere paragonabile a quella dei moderni abitanti delle società industrializzate.

Naturalmente, le distinzioni anche radicali a quel punto si possono moltiplicare. In fondo, come ci sono state le “guerre di religione” tra Apple e Microsoft, o tra Instagram e TikTok, così potrebbero esserci umani che si modificano per via genetica e altri che si modificano per via di software. Con la conseguenza che le specie potrebbero essere più di due e addirittura tre: “naturali”, “neo-biologiche”, “informatiche”. La convivenza tra queste specie sarebbe garantita soltanto dal rispetto reciproco, dettato da idee che potrebbero essere sviluppate per garantire i diritti di tutti.

Questa visione è un’estensione dell’evidente ossessione che i contemporanei stanno sviluppando intorno alla frammentazione delle società, alla polarizzazione tra ricchi e poveri, alla radicalizzazione delle opinioni. La struttura attuale dell’ecologia dei media sembra indicare la tendenza alla divisione e all’ampliamento delle differenze, con una sorta di chiusura nelle echo-chamber che si starebbero formando in rete. Ma altre tendenze sono possibili: la conquista di uno spazio comune della conoscenza e della convivenza è l’obiettivo di una battaglia tutt’altro che persa. E questo ha implicazioni forti sulla prosecuzione dell’evoluzione umana.

Le ricerche come quella di Sandberg sembrano orientate al futuro, ma sono un modo per discutere dei fondamenti del presente.

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