Diritti

Pinkwashing: se anche il marketing è violenza

Perché la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne non è un’occasione per le aziende di farsi belle continuando a ignorare le questioni di genere per 364 giorni all’anno
Durante la Tel Aviv Pride Parade del 2013, il collettivo anarco-queer "Mashpritzot" ha tenuto una manifestazione di finta-morte per protestare contro il pinkwashing israeliano
Durante la Tel Aviv Pride Parade del 2013, il collettivo anarco-queer "Mashpritzot" ha tenuto una manifestazione di finta-morte per protestare contro il pinkwashing israeliano Credit: mediawiki
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
25 novembre 2022 Aggiornato alle 06:30

Il 25 novembre è una – fondamentale – giornata di denuncia, riflessione, commemorazione. Quello che non è, e non deve essere, è un’occasione per le aziende di farsi belle a suon di post-posticci contro la violenza sulle donne che stridono in maniera quasi dolorosa con una sostanziale indifferenza al tema per i restanti 364 giorni dell’anno, talvolta addirittura con una cultura portatrice di quei valori tossici che sono il terreno di coltura della violenza di genere.

Eppure, il pinkwashing è ancora un tratto distintivo della comunicazione di moltissimi brand. Un tratto che, seppur visibile anche in altri periodi dell’anno – soprattutto in prossimità di ricorrenze come l’8 marzo e delle giornate legate alle patologie prevalentemente femminili come il cancro al seno – prevedibilmente si intensifica anche in vista di una ricorrenza nata, ricordiamolo, perché la violenza maschile contro le donne è una piaga che solo negli ultimi 11 mesi è costata la vita a 104 donne e la serenità, la libertà e il benessere a migliaia di altre.

Non solo le aziende non sanno raccontare la violenza sulle donne, ma non riescono proprio a trattenersi dal farlo, anche se hanno ignorato le questioni di genere dal 26 novembre dell’anno precedente. Nella maggior parte dei casi se lo fanno, l’obiettivo non è quello di promuovere una sacrosanta campagna di informazione, ma riempire un casella del piano editoriale (perché “non si può non parlarne”) e rubare spazio e voce in quella che altro non è che una strategia di marketing (si parla, in questo caso, anche femvertising e diversity marketing) che punta ad arrivare all’obiettivo vendendo la sensibilità dell’azienda come qualsiasi altra caratteristica di un prodotto. Con la differenza che questi “valori” tanto esaltati, nella pratica sono molto meno radicati nella cultura e nelle pratiche aziendali di quanto gli specialisti dell’advertising vorrebbero mostrare.

Questo è vero per la violenza di genere ma, più in generale, per moltissime tematiche che ruotano attorno all’universo femminile, di cui le aziende si appropriano per trasformarle in asset aziendali. Pensiamo al colosso del fast fashion H&M, entusiasta portavoce dell’empowerment femminile, dell’inclusione e del body positive e al contempo accusato di sfruttare lavoratrici e lavoratori sottopagati nelle fabbriche di Bulgaria, Turchia, India e Cambogia, oltre che produttore di un’insostenibile quantità di capi di abbigliamento rapidamente destinati a essere superati. O del marchio di abbigliamento svedese che ha prodotto e realizzato una serie di magliette con la scritta We Should All Be Feminists (“Tutti dovremmo essere femministi”), letteralmente cucite da dipendenti che lavorano in Asia in condizioni di sfruttamento.

Senza dimenticare i casi più celebri di pinkwashing (da cui il termine stesso ha avuto origine): quelli delle aziende che hanno promosso iniziative benefiche legate alla lotta contro il cancro al seno attraverso la promozione di prodotti (è il caso dei parabeni nei cosmetici Avon, del pollo fritto di KFC o dell’alcool della campagna Pink Your Drink), in diretto contrasto con uno stile di vita suggerito da specialisti ed esperti di oncologia.

Individuare i brand che cercano di ripulirsi la coscienza ammantandola sotto un velo rosa non è facile, soprattutto perché vorremmo credere nella buonafede di chi si dimostra attentǝ alle tematiche che ci stanno a cuore. Non è facile, ma è importantissimo perché ciascuno si assuma la responsabilità del proprio ruolo nel mantenimento di un sistema di potere e culturale che di quella violenza è all’origine. Ecco perché le iniziative capaci di smascherare il pinkwashing sono sempre più necessarie.

Twitter, lo sappiamo, non naviga in buone acque e non solo il suo Ceo è emanazione proprio di quella cultura maschilista e patriarcale che facciamo fatica ad abbattere, ma la sua politica di free speech ha permesso a moltissime pagine misogine di trovare nuova forza (come se ne avessero davvero bisogno). Eppure – finché durerà – può essere non solo uno strumento attraverso cui le aziende possono farsi rosa sfruttando la benevola ignoranza della maggior parte degli utenti, ma anche uno strumento di azione per denunciare queste manipolazioni.

È il caso, a esempio, del profilo Gender Pay Gap Bot, aperto nel marzo 2021, che nei suoi oltre 6500 tweet sfrutta i dati messi a disposizione dal governo del Regno Unito per mostrare l’ipocrisia delle aziende che postano contenuti DIE (Diversity & Inclusion), ritwittandoli e aggiungendo come caption “In this organisation, women’s median hourly pay is X% lower than men’s”.

Un modo semplice, eppure efficacissimo, di mostrare la distanza tra le parole e i proclami e le azioni che vengono prese all’interno della stessa azienda che vorrebbe farsi promotrice di un modello virtuoso di uguaglianza ed equità.

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