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In intelligenza emotiva le donne battono gli uomini 11 a 0

Sul palco a WomenX Impact con 2 workshop sulla leadership femminile, Chiara Longhi ha rivelato a La Svolta qual è la chiave per il successo in un mondo man-based
Credit: Profilo LinkedIn di Chiara Longhi
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 14 min lettura
28 novembre 2022 Aggiornato alle 13:00

Secondo le ultime statistiche, in Italia solo il 28% dei manager è donna e il divario di genere nel mondo del lavoro si colmerà (forse) tra 132 anni. La seconda edizione di WomenX Impact, il summit internazionale che si è chiuso il 19 novembre a FICO Eataly World di Bologna, è nata proprio per valorizzazione il ruolo delle donne nella società civile ed economica attraverso la presentazione di case studies e testimonianze di leadership femminile esposte da importanti imprenditrici, manager, Ceo, influencer e libere professioniste.

Abbiamo fatto una chiacchierata con Chiara Longhi, Digital Innovation Principal e APJ di Amazon Web Services, che a WomenX Impact ha tenuto 2 workshop dedicati alle donne leader nel tech e all’intelligenza emotiva come strumento di leadership e successo.

Empowerment, leadership, successo sono parole che, finalmente, iniziano a rompere il muro del genere. Ma cosa significa – davvero – essere una leader? E, soprattutto, c’è una leadership femminile che si differenzia da quella maschile? Se sì, in cosa?

Quando si parla di leaders e leadership, la maggior parte delle persone tende a pensarvi in termini maschili. Si pensa automaticamente a un qualcuno sicuro di sé, competitivo, assertivo, forte, deciso e indipendente. Raramente colleghiamo alla leadership caratteristiche come l’empatia, la compassione, la capacità di relazionarsi, comunicare e collaborare con altri. Caratteristiche che di solito definiamo “femminili” ma che appunto raramente colleghiamo al concetto di leadership.

Secondo il mio punto di vista, non esiste una leadership maschile e femminile. Io interpreto la leadership come l’arte di motivare con integrità, positività, e con passione gli altri, sapendoli guidare verso un obiettivo comune con umiltà, trasparenza, coraggio, consapevolezza e tenacia.

Quello della leadership non è solo un concetto complesso, ma anche in continua evoluzione. I leader devono essere in grado non solo di stabilire una direzione e visione per il team e pianificare i dettagli del percorso necessario per raggiungerli, ma anche (e soprattutto) devono riuscire a coinvolgere emotivamente il proprio team, portandolo a bordo di questo viaggio condiviso. Per fare questo devono creare una visione stimolante, che possa motivare e ispirare altri a volerla realizzare. Una leadership efficace non è limitata ai ruoli dirigenziali, né definita da una semplice gerarchia, ma è alimentata dall’umiltà, la credibilità, la fiducia e l’autenticità di chi la esercita realmente.

L’intelligenza emotiva è spesso vista come una caratteristica femminile, un’idea che sembra essere confermata anche da diverse ricerche. È così nella tua esperienza? In che modo può essere sfruttata per raggiungere la leadership, o per dar vita a un nuovo modello di leadership?

A livello generale, l’intelligenza emotiva, così come il più vasto concetto delle “emozioni”, è comunemente visto come una caratteristica femminile. Quando diversi anni fa iniziarono le prime teorie (poi verificate) di una correlazione tra intelligenza emotiva e successo professionale, iniziarono anche le prime ricerche focalizzate sull’EQ e la differenza di genere.

In uno studio del 2016, condotto dalla Korn Ferry Group, era emerso come le donne presentassero punteggi più alti in quasi tutte le categorie che si riferivano all’intelligenza emotiva, e dunque, maggiore capacità di influenzare, di gestire i conflitti e di essere considerate come una guida fidata. In questo studio, su un campionario di 55.000 professionisti in 90 Paesi, le donne superarono gli uomini in 11 delle 12 “competenze di intelligenza emotiva”, con una particolare differenza di punteggio in “leadership ispiratrice”, “coaching e mentoring”, “adattabilità” e “capacità organizzativa”. L’unica categoria in cui le donne non ottennero i punteggi migliori fu “autocontrollo emotivo”, dove non furono riscontrate differenze di genere.

La ricerca concluse che, indipendentemente dal sesso, i leader più efficaci all’interno delle organizzazioni erano quelli in grado di dimostrare intelligenza emotiva. Sia che si trattasse di rimanere calmi durante i periodi di turbolenza, sia di ispirare e ottenere il consenso del team, i leader che attingevano alle proprie competenze di intelligenza emotiva rappresentavano una tipologia di management altamente più efficace.

Questa ricerca mi fece molto riflettere. Se i leader migliori sono quelli che dimostrano “intelligenza emotiva”, e molteplici studi sembrano confermare che individui femminili hanno una performance nettamente più alta nella maggior parte di competenze emotive, perché globalmente esistono molti più leader uomini che donne?

In Italia, a esempio, secondo il Global Gender Gap Report 2022, le donne occupano meno di un terzo delle posizioni di leadership (32%) e gli uomini hanno il 63% di probabilità di ricevere promozioni interne a ruoli di leadership rispetto alle donne. Oltre a questo paradosso, c’è un altro aspetto importantissimo: il fatto che l’avere un alto quoziente di intelligenza emotiva venga molte volte percepito e descritto con una connotazione negativa.

Moltissimi sono gli episodi in cui mie colleghe di successo sono state descritte come “too emotional”, “moody”, “without a life”, mentre colleghi maschili con le stesse identiche caratteristiche e/o comportamenti venivano descritti come “hard working”, “ambiziosi”. Questo è uno shift mentale che sta avvenendo, richiederà ancora un po’ di tempo, ma è un cambiamento già in atto.

Per quanto riguarda come sfruttare l’intelligenza emotiva nella propria carriera professionale, nella mia sessione parlerò nei dettagli dei diversi studi che hanno dimostrato che ciò che realmente contraddistingue “good leaders”, da “average leaders” sono quasi puramente le competenze trasversali emotive/sociali, e non competenze tecniche specialistiche (come per anni si è pensato), e questo diventa ancora più vero in campo di leadership.

Quando parliamo di leadership, la parità è solo un obiettivo per le generazioni più giovani e quelle che verranno o le azioni positive sono in grado di influenzare anche il presente? Quanto l’azione positiva, a esempio, di alfabetizzazione digitale delle donne adulte e sviluppo dell’intelligenza emotiva possono trasformare l’esistente in termini di empowerment femminile?

Tantissimo! Se da una parte le donne hanno un’affinità quasi innata con molte delle competenze dell’intelligenza emotiva, l’alfabetizzazione digitale richiede uno sforzo attivo della società, e ricopre un ruolo fondamentale nell’assicurarsi che la tecnologia futura venga utilizzata efficacemente per chiudere il divario digitale di genere, invece che aumentarlo. Senza un’adeguata conoscenza digitale, sarà estremamente complicato per le donne raggiungere posizioni di leadership o comunque azionare qualsiasi processo di cambiamento esterno.

Il digitale è senza dubbio già parte integrante della nostra quotidianità, ma non farà altro che aumentare esponenzialmente nei prossimi anni. Con un aumento della domanda, è necessario pensare a un aumento delle risorse in grado di soddisfarla, e c’è bisogno di un maggiore sforzo collettivo in questo ambito.

La Commissione Ue sostiene che nel 2020 mancassero 1 milione di persone nel settore digitale; nel 2030 ne mancheranno circa 2 milioni. A prescindere da un concetto di equità e uguaglianza, è anche economicamente vantaggioso aumentare gli investimenti verso il lavoro delle donne, e rimuovere il maggior numero di barriere possibile. Il talento femminile rappresenta un enorme capitale umano. Se non ci si impegna attivamente per facilitarne l’empowerment (tramite iniziative come l’alfabetizzazione digitale), il rischio è quello di vera e propria inefficienza.

In Italia le donne con competenze informatiche e digitali vengono pagate molto di più. Eppure, l’industria del tech è sempre fortemente maschile. Come può una donna massimizzare il proprio valore e affermarsi in un campo storicamente dominato dagli uomini?

Ecco alcuni consigli personali:

1. cerca di distaccarti il più possibile dalla cosiddetta “sindrome dell’impostore”, prima lo farai, meglio sarà. La realtà e che nessuno sa cosa sta facendo, ma alcuni sono semplicemente più bravi a mascherarlo;

2. credi in te stessa, se non lo fai, non aspettare che altri possano farlo al tuo posto;3. prendi consapevolezza non solo delle tue capacità, ma anche del tuo valore, e attribuiscici un peso valido;

4. impara a dire di no, nelle occasioni in cui dire di no è la cosa giusta per te. Ricorda che ogni volta che dici di si a qualcosa che non vuoi fare, stai dicendo di no a qualcosa che vuoi fare;

5. creati un network di colleghi e mentori con cui confrontarti. Trova degli alleati uomini che possano fungere da guida, consiglieri, o anche semplicemente cassa da risonanza. Da sola puoi andare veloce, ma in gruppo vai lontana;

6. rendi la curiosità il tuo motore. Più sei curiosa, più ti butterai a capofitto in situazioni sconosciute e scomode. Più lo farai, più imparerai.

In uno dei due interventi al Festival hai condiviso i 3 insegnamenti più importanti che hai ricevuto nel corso della tua carriera per “Diventare una leader nel tech”. Se dovessi selezionarne solo uno da dare a tutte le ragazze – fuori e dentro il mondo del digital – quale sarebbe?

Selezionarne 3 è stato già abbastanza complicato, uno sarebbe quasi impossibile. Invece che uno specifico consiglio, senza fare troppi spoiler sulla mia sessione, vorrei condividere una frase che contiene al suo interno un’intera serie di altri insegnamenti: “Sii testarda nella visione, ma flessibile nei dettagli”. A prima vista questa frase sembra quasi una contraddizione unica. Ma la realtà è che per me questa è la chiave del successo.

Il concetto di essere “testardi nella visione” si riferisce all’importanza di definire una chiara “North Star”, un obiettivo e scopo che siano in sintonia con i nostri principi, valori e passioni. Quando invece parliamo di flessibile nei dettagli, ci si riferisce all’importanza di essere predisposti a sperimentare, fallire, imparare e sperimentare ancora. Insomma, il concetto del fallimento visto come crescita e valore aggiunto, invece che come sconfitta e perdita di tempo.

Essere quindi in grado di mostrare flessibilità non solo in riguardo alle modalità in cui si raggiungerà la vision/mission predefinita, ma anche e soprattutto in relazione ai piccoli dettagli su cui bisognerebbe evitare di creare alcun “attaccamento personale”. Nella mia sessione parlerò più a fondo di come riuscire a esercitare questo approccio dell’essere “testarda nella visione, ma flessibile nei dettagli” che a prima vista può sembrare contradditorio.

Secondo il più recente Gender gap Index ci vorranno almeno altri 132 anni per colmare il divario di genere globale. Quali sono i passi per accelerare – se si può – questo processo?

Fondamentalmente, questo gender gap riflette un problema sistemico di gestione dei talenti. E la differenza diventa maggiore, maggiore sia il livello di leadership/seniority. L’asimmetria nasce e aumenta proporzionalmente col crescendo della seniority di un ruolo.

2 sono gli step essenziali: riconoscere l’esistenza del problema e agire attivamente per mitigarlo. Il primo step ormai è familiare quasi a tutti, ma è il secondo quello che veramente aziona il cambiamento. Riconoscere l’esistenza di un problema, infatti, non serve a risolverlo. Per farlo, invece, bisogna consciamente (e collettivamente) prendere decisioni e indirizzarle a mitigarlo.

Quando dico che il Gender Gap riflette in realtà un problema di gestione dei talenti, mi riferisco all’assunzione, coinvolgimento, e fidelizzazione dei dipendenti. Aziende da tutto il mondo danno grande priorità alla gestione di ognuna di queste fasi, ma molte di loro non sono abbastanza focalizzate sul talento femminile. In un recente sondaggio Mercer su più di 1.000 aziende in 54 Paesi, l’81% ha affermato che era importante creare un piano per promuovere la parità di genere, ma solo il 42% lo ha effettivamente fatto.

Quindi, praticamente, cosa si può fare?

È essenziale che le aziende prestino particolare attenzione ad affrontare le disuguaglianze in ogni area della gestione dei talenti: attrazione e assunzione dei talenti, integrazione e sviluppo, valutazione della performance e promozione, e infine la fidelizzazione dei talenti.

Per quanto riguarda l’assunzione, uno studio dell’Harvard Business Review ha segnalato come le aziende spesso “eliminino” potenziali candidate, ancora prima di intervistarle. Una delle ragioni è che spesso i manager si affidano al loro network personale per identificare nuovi candidati. Seppure questo approccio porti a candidati di alta qualità, solitamente è anche contraddistinto da una bassa varietà di scelta, perché ognuno di noi è per natura più propenso e attratto da persone a noi simili.

Se la maggioranza di manager sono uomini, c’è grande probabilità che i candidati provenienti dalla loro rete personale siano pure uomini, e con grande probabilità, con un background molto simile. Nel mio stesso team qualche anno fa abbiamo osservato come le “job descriptions” pubblicate online spesso scoraggiavano donne qualificate dall’applicare. Numerosi studi hanno infatti dimostrato come il linguaggio di genere spesso dissuade le donne dal candidarsi: quando il candidato “ideale” è descritto con termini stereotipicamente maschili (come a esempio “competitivo”, “energico”, “forte”), le candidate donne sono più propense a non fare application anche avendo (e sapendo di avere) le competenze richieste. Descrizioni di lavoro poco chiare, o esagerate sono risultate anche correlate con meno application da parte di donne. Quindi una soluzione semplice sarebbe prestare attenzione al linguaggio che viene utilizzato nel descrivere la posizione lavorativa, e nel caso di riferimento a un network personale, essere consapevoli dei bias che si possono avere.

Per l’integrazione e crescita, garantire un processo di assunzione oggettivo e imparziale e assumere dipendenti donne tramite questo processo, è solo metà della mela. Attrarre il talento è importante, mantenerlo e fidelizzarlo è fondamentale. L’Harvard Business Review ha riportato una ricerca effettuata nel settore bancario, rivelando che le dipendenti donne avevano molta più difficoltà a formare relazioni e quindi ottenere la fiducia e la credibilità dei colleghi, fattore fondamentale per la crescita professionale all’interno di un’azienda.

Una delle barriere più comuni era il fatto che molte decisioni venivano innescate (se non completamente finalizzate) fuori dall’ufficio, spesso in ambienti tradizionalmente considerati maschili (stadio, pub, campo da golf). I colleghi uomini erano quindi più agevolati nel creare connessioni, cooperazione e sostegno reciproco, rispetto alle colleghe donne. È importante quindi che aziende riconoscano questa realtà e diano priorità ad approcci di lavoro collaborativo, scoraggiando invece attività sociali esclusive.

Un altro aspetto essenziale è il lavoro che viene dato da svolgere. È molto più comune lo scenario in cui a una dipendente donna viene richiesto di organizzare attività fuori dalle proprie mansioni (come organizzare una cena per il team, riservare una meeting room, organizzare un evento team building), che lo scenario in cui le stesse richieste vengano effettuate a un uomo.

L’assegnazione di “compiti” meno gratificanti alle donne è un fenomeno assolutamente reale, così come la richiesta di “lavori” che richiedono tempo extra, ma aggiungono poco o nulla al curriculum. Uno dei consigli che ho per le mie colleghe è di non avere paura non solo di dire di no, ma di richiedere (se non esigere) responsabilità maggiori, anche se non si pensa di essere qualificate a 360 gradi (sindrome dell’impostore). Avere un manager che supporta questo approccio è uno step critico.

Per quanto riguarda la promozione, in molte aziende il processo richiede una partecipazione molto attiva del candidato. Ci si aspetta infatti che l’individuo in questione si faccia avanti, e chieda espressamente di essere promosso e retribuito adeguatamente in base alla performance di livello esibita. Questo è un fattore che costituisce spesso uno svantaggio per le donne: a causa di norme ormai intrinseche alla nostra società, una donna che esibisce comportamenti espliciti viene spesso considerata una “troppo sicura di sé”, e quindi spesso la reazione è quella di non farsi avanti.

Invece che basarsi sulla “self-nomination”, i manager dovrebbero raccogliere dati oggettivi sui loro dipendenti e valutare chi si differenzia per qualità di lavoro eseguito. Un processo formalizzato, chiaro e trasparente, basato unicamente sulla qualità degli input e output agevolerebbe e garantirebbe un processo giusto e equo.

Infine, per la fidelizzazione, una dipendente valida che non viene valorizzata, prima o poi se ne andrà. Molto spesso, i fattori alla base di un turnover sono associati a mancate promozioni, esclusioni da decisioni importanti, e la generale sensazione di non venire trattate in modo equo e giusto. È importante che le aziende indaghino sulle ragioni per cui i talenti lascino la compagnia, e nel caso un pattern emerga, è essenziale analizzarlo nei dettagli e capire la causa all’origine, piuttosto che considerarli fenomeni isolati e irrilevanti.

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