Ambiente

La diplomazia climatica non sente l’Africa

Il nuovo commento pubblicato su Lancet ci ricorda perché l’impegno del Nord del mondo in supporto al Sud, il più esposto alla crisi climatica, deve aumentare
Vista dall’alto di un villaggio in Tanzania
Vista dall’alto di un villaggio in Tanzania Credit: Ben koorengevel/ Unsplash
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28 ottobre 2022 Aggiornato alle 07:00

C’è l’inizio di COP27, quella maxi-riunione condominiale in cui tutti i Paesi si ritrovano per discutere di come risolvere la crisi climatica, e se avanza tempo per chiedere alla signora Bollini del quinto piano di smetterla di fare briciole sui balconi sottostanti.

C’è la nuova stagione di Boris, il cui arrivo è atteso più delle rinnovabili in un percorso di transizione ecologica.

La seconda stagione della serie cult si apriva su Stanis La Rochelle che non sentiva l’Africa.

Caso vuole che lo stesso valga anche per la grande diplomazia climatica internazionale. “Quando guardo il fiume Ngube, io vedo Pomezia” si lamentava il divo con il regista René Ferretti. “Lo capisci che c’è un problema o no?”.

Africa, continente dimenticato

Il problema c’è. Appena qualche mese fa un nuovo report Ipcc forniva il crudo resoconto di come gli effetti della crisi climatica hanno colpito, colpiscono e colpiranno sempre più duro tutto il pianeta. Ma certe parti sono colpite più duramente di altre, e proprio loro, le altre, ne sono colpevoli. Ora un commento pubblicato su Lancet da un nutrito gruppo di ricercatori del continente africano ci ricorda perché l’impegno del Nord del mondo in supporto all’Africa e agli altri Paesi più esposti alla crisi climatica deve aumentare seriamente.

Non cediamo alla banalizzazione di Vianello: l’Africa è un continente ampio, sfaccettato e diversissimo.

Caratterizzato però dal fatto che ovunque al suo interno la crisi climatica sta influendo disastrosamente su quei fattori ambientali e sociali che determinano lo stato di salute degli individui e delle comunità. Immaginiamoci di essere in sala d’attesa dal nostro medico e intorno a noi è tutto un lamentarsi delle alluvioni, della siccità, dell’acqua sempre meno potabile, delle nuove epidemie, delle ondate di calore, della scarsissima produzione agricola e dell’insicurezza alimentare, delle proibitive condizioni di lavoro nei contesti urbani o rurali, dei disagi psicologici.

Per non parlare delle ossa, quelle presto o tardi toccano a tutti, signora mia, che ci vuole fare?

In questo marasma di eventi estremi, è lecito chiedersi cosa si possa fare e a spese di chi.

Giustizia climatica

COP27 si svolgerà a Sharm el-Sheikh, in Egitto, e sarà la quinta delle COP sul cambiamento climatico ad avere luogo in Africa.

Un setup ottimale per concentrare le due settimane di negoziazioni sulla questione della giusta finanza climatica.

Il grande tema delle risorse finanziarie da mobilitare verso i Paesi maggiormente colpiti era stato messo sul tavolo già durante COP15 a Copenaghen nel 2009. Era stato formalizzato in Messico l’anno dopo e riproposto nel 2015 a Parigi, durante la COP del famoso accordo.

Venivano previsti 100 miliardi di dollari che i Paesi ricchi avrebbero dovuto destinare ogni anno ai Paesi in via di sviluppo fino al 2020, per poi proseguire, possibilmente aumentando la somma, nei successivi cinque anni.

Soldi da utilizzare tanto per la mitigazione del cambiamento climatico (ossia per cercare di rallentarlo lavorando sulle emissioni di gas climalteranti, come l’anidride carbonica) quanto per l’adattamento (cioè tutte quelle azioni necessarie a prevenire e proteggersi dagli effetti di un mondo a temperature sempre più alte). Eppure, dei soldi promessi se ne sono visti finora solo una frazione. Nel 2020 si era raggiunta la cifra di poco più che 83 miliardi. Non proprio pochi, ma non proprio cento.

La nostra responsabilità come Paesi ricchi e sviluppati nei confronti dell’Africa e dei Paesi più vulnerabili inizia a essere un elefante nella stanza talmente grande che ci toccherà buttare giù il muro della cucina per farcelo stare tutto. È perciò tempo di assumercela.

In primo luogo, ci suggeriscono gli autori su Lancet, “perché è moralmente giusto”.

Dicevamo che i Paesi meno colpevoli della crisi climatica sono i più colpiti da essa. Loro hanno emesso il 3% di tutta la CO2 pompata in atmosfera dalla Rivoluzione Industriale a oggi.

Noi, Nord America e Europa, il 62%.

Da un punto di vista climatico, l’Africa viaggiava affacciata al finestrino del sedile posteriore mentre noi, seduti davanti, smoccolavamo fuori la cenere della sigaretta.

In secondo luogo, continuano gli autori, perché non farlo consisterebbe in darsi la zappa sui piedi. Non curarci dei problemi “acuti e cronici” che la crisi climatica sta causando lì, come povertà, epidemie,

migrazioni di intere comunità e conflitti, significa restare ad aspettare che i loro effetti distruttivi riverberino fino a noi lungo quelle infinite interdipendenze strutturali su cui balla questo nostro mondo.

Vi farei un esempio concreto per spiegarvi in che senso il mondo sia interdipendente, ma ho un po’ di Covid e non sono lucidissimo.

In un “organismo pianeta” estremamente complesso e interconnesso, su certe cose ci dobbiamo mettere tutti le mani. Ogni COP è un’occasione per concentrare le energie su tenere bassa la febbre che abbiamo causato alla Terra.

Siccome la febbre è già altina, ogni COP deve anche essere luogo per riparare ai danni. In contesti come quello africano, tali danni sono attualmente di grandissima severità e se vogliamo mantenere l’intero sistema in equilibrio bisogna tirare fuori le risorse per affrontarli.

Significa fornire alle comunità locali i fondi per aumentare la resilienza agli eventi estremi, e in tal senso è importante mettere bene a fuoco il ruolo esistenziale di sistemi sanitari reattivi. Significa anche favorire uno sviluppo a basse emissioni per Paesi che ovviamente vogliono raggiungere gli stessi nostri livelli di benessere. E significa trovare un accordo sulla questione dei danni e delle perdite già subiti.

Loss&damage

Ecco, questo è un altro mal di pancia delle COP. A Glasgow l’anno scorso si era litigato a lungo sul tema dei loss&damage, ossia quegli impatti della crisi climatica talmente profondi che le comunità non possono nemmeno più adattarvisi. I Paesi in via di sviluppo vogliono che chi ha colpa su questi danni paghi loro un risarcimento. A COP26 i Paesi ricchi come Europa e Stati Uniti non si sono nemmeno fermati a fare la constatazione amichevole. La scorsa conferenza si è chiusa con la promessa di instaurare, da lì al 2024, un percorso di dialogo sull’istituzione di un ente preposto a gestire i risarcimenti su perdite e danni. In pratica: parliamone. “Non ne stavamo già parlando da anni?”, hanno reagito i Paesi vulnerabili. “Sì ma ora parliamone in cinese, così facciamo pratica per il corso a cui ci siamo iscritti”, hanno fatto eco gli altri.

Senza un’apertura da parte dei Paesi ricchi, si faticherà a portare risultati concreti su danni e perdite, ma ci sono segnali che tale dialogo potrebbe essere quantomeno anticipato in Egitto.

Nel frattempo, l’Africa farà fronte comune per ottenere passi avanti sulla finanza climatica. Forse sarà l’argomento morale a incentivare l’azione della controparte più privilegiata. Forse sarà la realizzazione che senza finanza climatica si mettono a rischio gli interessi di tutti. I negoziati che stanno per incominciare ci diranno come si mette e al mondo non resta che sperare che la diplomazia internazionale a COP27 abbia almeno tre cose in comune con la nuova stagione di Boris: qualità, qualità, qualità.

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