Diritti

Gli algoritmi sono dei pessimi boss

Vogliamo davvero delegare scelte che possono influenzare la vita professionale di migliaia di persone a macchine di cui nemmeno gli stessi sviluppatori riescono a comprendere i meccanismi di funzionamento?
Credit: DeepMind/unsplash
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
29 novembre 2022 Aggiornato alle 11:30

Il tema dell’automazione del lavoro è stato ormai ampiamente dibattuto. Quando parliamo della possibilità di sostituire le attività umane con intelligenze robotiche, però, generalmente pensiamo esclusivamente alla forza lavoro. Un aspetto che tende a passare in secondo piano – è che invece meriterebbe ben altra attenzione – è che a essere gestite da algoritmi sono ormai un numero sempre maggiore di funzioni manageriali.

Dall’assegnazione dei task, passando per l’ottimizzazione dei processi, lo screening delle domande di lavoro fino alla valutazione delle prestazioni dei lavoratori e persino alla scelta se licenziare o meno un dipendente, sono software, algoritmi e sistemi di tracciamento a gestire i dipendenti.

I benefici – per le aziende – sono chiari, a partire dal risparmio. Automatizzare le attività che richiedono più tempo per essere completate dagli esseri umani: l’algoritmo di Uber, a esempio, spiegano Robert Donoghue dell’University of Bath e Tiago Vieira dell’EUI - European University Institute, permette di supervisionare 3,5 milioni di conducenti con 22.800 dipendenti, secondo gli ultimi dati annuali.

Non solo: i sistemi di intelligenza artificiale possono anche scoprire modi per ottimizzare le organizzazioni aziendali. Spiegano ancora i ricercatori che “il modello di aumento dei prezzi di Uber (aumento temporaneo dei prezzi per attirare i conducenti durante i periodi di punta) è possibile solo perché un algoritmo può elaborare i cambiamenti in tempo reale nella domanda dei passeggeri”.

Se i costi diminuiscono e alcuni aspetti si efficientano, però, a crescere è anche la capacità di controllare i dipendenti: monitoraggio e sorveglianza sono due aspetti destinati a crescere parallelamente all’incremento del numero di attività e aziende gestite da AI. Un numero destinato a crescere anche grazie alla diffusione dei wearable, le tecnologie indossabili che, se come spiega lo studio Working with Machines: The Impact of Algorithmic and Data-Driven Management on Human Workers hanno “il potenziale per aumentare l’efficienza del lavoro tra i dipendenti, migliorare il benessere fisico dei lavoratori e ridurre gli infortuni sul lavoro”, hanno anche la capacità di tracciarne continuamente e in diretta movimenti e attività.

Per quanto pericolosa e inquietante, i rischi dell’affidare la gestione di aziende e del loro capitale umano a robot intelligenti, però, non si limitano alla loro capacità di sorvegliare i lavoratori. E nemmeno su quello che, spiegano i ricercatori, è stato l’aspetto più discusso dai media: il cosiddetto pregiudizio algoritmico. Se pensate, infatti, che una macchina sia imparziale, il caso di Amazon dimostra il contrario: l’algoritmo che doveva classificare i curriculum ricevuti, infatti, è stato presto mandato in pensione perché valutava costantemente i CV con caratteristiche maschili superiori a quelli di pari livello ma ritenuti più femminili.

Il fatto che anche gli algoritmi possano avere dei pregiudizi è solo uno dei motivi per cui gestire determinate attività in maniera automatica rischia di aumentare lo squilibrio di potere tra datori di lavoro e dipendenti. La verità è che, per certi aspetti, nemmeno il creatore dell’algoritmo può sapere come la macchina gestirà determinati processi. Se gli algoritmi tradizionali, infatti, sono programmati per fornire output programmati sulla base di precise istruzioni, quelli a apprendimento automatico “imparano a prendere decisioni da soli dopo l’esposizione a molti dati di addestramento. Ciò significa che diventano più complessi man mano che si sviluppano, rendendo le loro operazioni opache anche per i programmatori”.

Vogliamo davvero delegare le scelte che possono influenzare la vita professionale e personale di centinaia di migliaia di donne e uomini a macchine di cui nemmeno le persone che le hanno ideate riescono a comprendere fino in fondo i meccanismi di funzionamento?

C’è, però, un altro grande aspetto problematico nel delegare la gestione dei lavoratori a software e algoritmi. Come dimostra il recente caso di Sebastian Galassi, il ventiseienne driver di Glovo rimasto ucciso durante il turno di lavoro e licenziato il giorno successivo con una mail pre-impostata “per condotta inappropriata” per non aver effettuato una consegna affidatagli, quello che manca davvero alle macchine non è solo la trasparenza dei processi. È l’umanità. Certo, i principali orribili e senza cuore ci sono (purtroppo) in tantissime aziende, ma sono comunque persone con cui è possibile confrontarsi, scontrarsi, ragionare da pari.

«Gli algoritmi progettati per massimizzare l’efficienza sono indifferenti alle emergenze per l’infanzia. Non tollerano i lavoratori che si muovono lentamente perché stanno ancora imparando il lavoro. Non negoziano per trovare una soluzione che aiuti un lavoratore alle prese con una malattia o una disabilità», spiegano Donoghue e Vieira, concludendo: «Anche se non tutti i manager umani sono compassionevoli, c’è lo zero per cento di possibilità che i gestori di algoritmi lo siano».

Un fattore, questo, che come mostra il caso di studio dei corrieri Amazon Flex sempre a cura dei due autori, aumenta il malessere lavorativo dei dipendenti: l’incapacità dell’algoritmo di accettare gli appelli umani, infatti, era fonte di “esasperazione” per i lavoratori della piattaforma.

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