Diritti

Sport: la salute mentale è la vera vittoria

Forse da fuori non si vede e noi non pensiamo che campioni e campionesse possano soffrire di disturbi d’ansia o psicologici. Ma nessuno è imbattibile
Paola Egonu ed Elena Pietrini durante i quarti di finale di pallavolo femminile tra Serbia e Italia ai Giochi Olimpici di Tokyo 2020
Paola Egonu ed Elena Pietrini durante i quarti di finale di pallavolo femminile tra Serbia e Italia ai Giochi Olimpici di Tokyo 2020 Credit: EPA/TATYANA ZENKOVICH
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25 ottobre 2022 Aggiornato alle 06:30

I problemi di salute mentale tra gli sportivi non sono iniziati di recente, ma in passato certi problemi non sono venuti fuori perché non era permesso mostrare certi lati di sé.

Celebri i casi della ginnasta Simon Biles e della tennista Naomi Osaka che, insieme al contributo di tanti altri sportivi, hanno invertito la tendenza riguardo al tabù della salute mentale, ritirandosi da importantissime competizioni (le Olimpiadi di Tokyo e il Roland Garros dello scorso anno) per preservare il loro benessere psicologico. «Mentre ero in aria non mi rendevo conto di dove ero, avrei potuto farmi male», aveva detto la ginnasta.

“Simone Biles aveva fretta che arrivassero i Giochi Olimpici - scriveva il New York Times - non che cominciassero, ma che finissero”.

La narrazione attorno alla fragilità come causa del ritiro di Simone Biles, la più forte ginnasta mai esistita, è il sintomo della tossicità di parte dell’ambiente mediatico sportivo che, al contrario, dovrebbe amplificare la voce di chiunque stia tentando di normalizzare questi argomenti, di far capire che mente e corpo non sono separati e che il benessere personale viene prima di tutto.

Ancora, i social media, che hanno dato spazio alle testimonianze di pressioni, complimenti e insulti ricevuti dagli sportivi. Basti pensare agli inaccettabili casi di razzismo subiti nelle ultime settimane dalla pallavolista della nazionale italiana Paola Egonu o dal calciatore inglese del Brentford Ivan Toney su instagram. Allo stesso tempo, è sempre grazie ai social che c’è stato il cambio di rotta che ha normalizzato la salute mentale, con un numero sempre maggiore di atleti che hanno condiviso le loro esperienze (come hanno fatto in passato le All Stars NBA Demar Derozan e Kevin Love).

Anche Ronaldo Nazario, dirigente sportivo ed ex attaccante brasiliano, si è recentemente espresso sul tema: «Guardo indietro e vedo che sì, siamo stati esposti a uno stress mentale molto, molto grande e senza esserne assolutamente preparati Anche perché era l’inizio dell’era di Internet, con la velocità con cui viaggiano le informazioni. In questo periodo non c’era alcun tipo di preoccupazione per la salute mentale dei giocatori. Oggi vengono preparati molto di più, ricevono le cure mediche necessarie anche per affrontare il quotidiano e i giocatori vengono studiati maggiormente: i profili di ciascuno, come reagiscono, come dovrebbero reagire… Ai miei tempi non c’era niente di tutto questo, disgraziatamente, perché si sa da sempre che il calcio può provocare molto stress ed essere determinante per il resto della vita. La realtà è che non sapevamo nemmeno che esistesse questo tipo di problema. Il tema era totalmente ignorato dalla mia generazione. Molti, ovviamente, hanno passato momenti terribili, compresa la depressione, a causa della mancanza di privacy e di libertà. È chiaro che i problemi erano molto evidenti, ma le soluzioni poco disponibili ».

Ad aprile 2020, FIFPro denunciava il rapido aumento di casi di depressione nei calciatori e nelle calciatrici dopo i primi giorni di lockdown: lo studio mostrò che il 22% dei giocatori intervistati soffrivano di depressione o avevano avuto pensieri autolesionisti, il 69% era preoccupato per la sua carriera, e il 72% ammetteva di soffrire regolarmente di nervosismo e ansia.

L’ex nuotatore Michael Phelps ha ammesso di aver pensato a lungo al suicidio, e di essersi salvato andando in terapia: «Diventare un campione è la parte più facile, quella più difficile è non arrendersi. Ma io dopo ogni Olimpiade cadevo in depressione. La prima volta è successo nel 2004, la droga era un modo per scappare. Nel 2012 passavo la vita a letto, non volevo essere vivo. Ho capito che a volte sentirsi bene non significa stare bene, che le persone hanno paura a parlare dei loro disagi e per questo il tasso di suicidi aumenta».

In una società dove la salute mentale è considerata ancora un tabù dovuto alla mascolinità tossica, spesso radicata negli ambienti sportivi, vedere sempre più atleti parlarne è una rivoluzione che avrà un grandissimo impatto positivo.

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