‘II Cerchio’ dei bambini alla Festa del cinema di Roma

«Non è che smettiamo di essere bambini, diventiamo solo più grandi. Siamo sempre noi, ma adulti». È l’epitome di Il Cerchio, il secondo documentario della regista italo-francese Sophie Chiarello in concorso ad Alice nella città, la sezione autonoma della Festa del cinema di Roma in programma dal 13 al 23 ottobre.
Protagonisti sono loro, i bambini. Ma non i bambini oggetto, i pargoli inteneriti dalla pietà viziata dell’adulto che vi riflette la propria nostalgia. E neppure i bambini angeli che si trastullano spensierati prima della cacciata dall’eden dell’infanzia.
No, i bambini di questo lavoro nato seguendo per cinque anni gli alunni della sezione B della scuola Daniele Manin di Roma sono prima di tutto questo: non adulti. In quanto tali diventano un’inevitabile cartina al tornasole, uno specchio (de)formante nel quale si riflettono ideali, cultura, stereotipi e paure degli uomini, donne e cittadini che siamo.
Ecco quindi che una disquisizione in due tempi sull’esistenza di Babbo Natale mette in scena uno psicodramma collettivo dove imparare a confrontarsi e a rispettare gli altri. «A 5 anni mia madre mi ha detto che non esiste, io le ho creduto», dichiara il più scettico degli astanti. Ma poi si batte affinché la verità resti segreta e i compagni non perdano la speranza.
Anche contro chi disprezza l’incarnazione del Natale in quanto terza rispetto al valore della famiglia. «A un certo punto si intromette questo ciccione», sbotta una bambina in lacrime per non riuscire a passare il tempo dovuto in compagnia della madre che si alza alle 6.00 del mattino per lavorare.
Chiarello si fa da parte, li ascolta, li sprona con domande radicali sulla vita o l’amore e poi li lascia parlare. C’è l’orfano che racconta del padre scomparso, la figlia che non riesce a parlare del padre, chi ignorando la parola “sessismo” lo definisce «una specie di razzismo». «Che cosa sono i migranti?», chiede un bambino originario del Bangladesh.
E c’è chi si disegna da solo nel buio. «Anche i compagni ti possono tradire», lo hanno messo in guardia i genitori. Più volte emerge, in questo ritratto collettivo, l’eredità nociva delle loro tare. «Non è mio figlio che disturba gli altri, è tuo figlio che non si sa difendere», ricorda di aver sentito un bambino per bocca dei genitori di chi lo ha bullizzato e costretto a cambiare scuola.
Ha i capelli lunghi e biondi, il viso femmineo, si rannicchia con gli arti magri da ragno e brilla, nella sua universale diversità, di una scintilla che accende nella danza e nel pianoforte. Dopo poco più di un’ora e mezza di film si esce dalla sala con la sensazione di averli conosciuti questi bambini, di aver interagito con loro, di essere stati, anche se per poco, parte dell’armonia di quel cerchio.
E quando, durante i difficili mesi della pandemia, la regista esce dallo spazio protetto dell’aula per ritrovarli nei tinelli o nei balconi delle loro case, nei giardini o nelle strade dei loro quartieri, chi guarda capisce, una volta di più, l’importanza di quel “set biografico” che è la scuola.
