Come funziona il sistema pensionistico?

In vista della formazione del nuovo governo, si torna a porre l’accento sui problemi strutturali del nostro Paese. Uno su tutti: il sistema pensionistico, che dal momento del passaggio dal meccanismo retributivo a quello contributivo (1995) ha dato luogo a pareri piuttosto discordanti.
In Italia vige un sistema pensionistico “a ripartizione”: vale a dire che i contributi versati dai lavoratori e dalle imprese sono destinati al pagamento delle pensioni di coloro che hanno già cessato la loro attività lavorativa.
L’aliquota contributiva Ivs è il contributo annuo che i lavoratori dipendenti e autonomi devono versare agli Enti di Previdenza per il finanziamento diretto delle prestazioni pensionistiche di vecchiaia, di invalidità e dei superstiti, in modo da garantirne l’erogazione. Si tratta dell’aliquota contributiva più pesante dell’ordinamento italiano che per i lavoratori subordinati tocca il 33% della retribuzione annuale lorda, di cui il 9,19% viene pagata dai lavoratori dipendenti (aumenta di un punto percentuale nel caso in cui la retribuzione superi la fascia di retribuzione pensionabile annua, pari a 48.279€) mentre la restante parte, pari al 23,81%, viene versata dal datore di lavoro.
Questo dato regala all’Italia un singolare primato. Secondo l’ultimo report Ocse Pensions at a Glance 2021, il nostro Paese è quello nel quale l’aliquota contributiva più alta tra tutti i 34 membri dell’Ocse (dove, invece, l’aliquota media è pari al 18,2%).
Per funzionare correttamente, il sistema a ripartizione fa leva sul necessario equilibrio tra gli ingressi dei giovani nel mondo del lavoro e le uscite dallo stesso di pensionati, invalidi o inabili.
Proprio per questo, una delle principali critiche che viene mossa al malfunzionamento del sistema pensionistico italiano è di matrice demografica e riguarda il progressivo invecchiamento della popolazione. L’età pensionabile prevista per legge è pari a 67 anni e, a fronte di un aumento della popolazione ultra 65 (ad oggi, 14,5 milioni secondo Istat, circa il 24% della popolazione nazionale), l’Italia viene considerata uno dei Paesi più anziani al mondo. Con la conseguenza che lo squilibrio tra pensionati e giovani che entrano nel mondo del lavoro sia sempre maggiore.
A fare da contraltare al costante invecchiamento della popolazione è il netto calo del tasso di natalità: nel 2022, circa il 14,5% in meno rispetto al 2021. Un valore tra i più bassi d’Europa, che comporterà una contrazione del Pil nel lungo periodo, aumentando il peso della spesa pensionistica sull’economia del Paese.
La situazione è ulteriormente aggravata dalle cosiddette opzioni di pensionamento anticipato, che prevedono la possibilità di andare in pensione prima del raggiungimento dei 67 anni. Le diverse opzioni disponibili riducono l’età media di uscita dal mondo del lavoro fino a 61,8 anni, a fronte dei 63,1 anni della media Ocse.
Concedere tali agevolazioni a pensionati sempre più giovani, oltre a compromettere l’equilibrio tra entrate e uscite nel mondo del lavoro, comporta, anche qui, un aumento della spesa pensionistica italiana, dovuta all’allungamento del periodo destinato al pagamento della pensione al singolo. Un quadro sempre più complesso e una congiuntura che non ne agevola la risoluzione.