Diritti

Rapida (e non esaustiva) incursione nel queer

3 libri, 3 autori e autrici - Butler, Halberstam, Muñoz - per scoprire e capire qualcosa di più sulla Q di Lgbtq+
Credit: cottonbro /pexels

In principio, era la parola: queer, epiteto dispregiativo che in lingua inglese veniva e viene rivolto alle persone omosessuali. Dal latino torquere prima, e dal tedesco quer poi, richiama ciò che è torto e quindi storto - obliquo. Il contrario di straight, dritto, retto (in questa scansione, anche, giusto: eterosessuale). La prima occorrenza a livello accademico viene attribuita a Teresa de Lauretis, che nel 1990 tenne una conferenza all’università californiana di Santa Cruz, titolata appunto Queer Theory: Lesbian and Gay Sexualities.

La Q in Lgbtq+, queer, oggi non è quindi più uno slur: definirsi queer significa infatti collocarsi entro uno spettro o universo di significati, mettere in opera un processo di distanziamento e disidentificazione rispetto all’appartenenza a identità di genere e alla relativa prescrizione di ruoli sociali e inventare, per sé e assieme ad altrə, nuovi modi d’esistenza.

Ripercorriamone le rifrazioni attraverso tre libri che il queer - ciascuno a proprio modo: ovvero, in modo mai esaustivo - hanno raccontato.

Gender Trouble, Judith Butler (Taylor & Francis Ltd, 272 p. 27€)

Il linguista John Langshaw Austin individua quelle asserzioni che non descrivono uno stato di cose, né informano su un fatto, ma compiono e realizzano quel che dicono di fare. “Prendo te come mia sposa”, “Battezzo questa nave Queen Elizabeth”: atti performativi, li chiama Austin. Pronunciare queste frasi significa anche eseguire quella stessa azione.

Ecco: per Butler, il genere stesso è un atto performativo. Quando veniamo al mondo, qualcunə, tendenzialmente personale medico, certifica il nostro sesso: gesto che non è una semplice descrizione del corpo, ma un’assegnazione a un ruolo (di maschio o di femmina, appunto). Le categorie con le quali i nostri corpi sono descritti (e quindi “ordinati”, dal momento che, per Butler, ricevono un ordine o un comando) sono binarie, e similmente duali e opposte sono le modalità con cui ci si aspetta che i corpi si comportino d’ora in avanti (differenti le sensibilità, i gusti, le aspirazioni, i desideri).

Naturalmente non è solo questo a determinare quel che siamo e che faremo. È il più ampio contesto sociale che, in ogni momento, accorda valore a quei segni alla nascita conferiti, e così li conferma. Che il genere sia performato significa dunque questo: che il genere, piuttosto che essere innato, è un insieme di atti ripetuti, indotti spesso da un esterno (che s’incarna nella famiglia, nella scuola, più in generale nella società) che richiede, appunto, che si aderisca a un genere o all’altro.

Il queer è allora quello spazio d’inventiva lasciato a ogni soggetto, lo spazio di negoziazione con la norma: siamo determinatə da significati, gesti, immagini che ci precedono, eppure possiamo rimescolare le carte in tavola, e questi gesti stessi. Rimescolando la mascolinità e la femminilità, resistendo alla categorizzazione binaria. Con un altro titolo di Butler, Fare e disfare il genere.

L’arte queer del fallimento, Jack Halberstam (Minimum fax, 332 p. 19€)

Fare o disfare il genere: spesso, succede anche solo per distrazione e per errore. Se la società eteronormata parla la lingua del successo e del progresso, ovvero della performance, queer è fallire: fallire anzitutto l’imperativo che richiede di collocarsi entro il modello binario di genere e sessuale. Fallire come disimparare, fallire come essere ingenuə, preferendo la mancanza di senso.

Occorre infatti un esercizio di dimenticanza, di rimozione (quasi di fuga!) per imparare a essere queer: ovvero, per parafrasare il filosofo Michel Foucault, per inventare relazioni che non imitino il modello relazionale dominante (che vede non semplicemente la dualità esistenzialistica dei generi, ma anche una relazione gerarchica tra i due poli, maschile e femminile).

Essere queer è allora farsi piccolə per sfuggire a questo tipo di potere - che sempre Foucault nelle sue lezioni al Collège de France definiva “pastorale”, perché prende in carico la vita del suo “gregge” per trasformare ciascun individuo in soggetto pienamente autonomo, sano, riconosciuto - resistere alla sua messa in forma e, disinformatə, sperimentare nuove modalità dello stare al mondo, dimenticati gli stereotipi e le prescrizioni ricevuti.

Se, come sosteneva Kant (filosofo padre della modernità), gli esseri umani sono legni storti (sbilenchi, queer), per avanzare verso questo nuovo mondo bisognerà, un po’ come bambinə, l’un l’altrə tenersi per mano.

Cruising Utopia, José Esteban Muñoz (New York University Press, 270 p. 20€)

“Queer non è ancora qui. Queer è un ideale. Detta altrimenti, noi non siamo ancora queer”, scrive lo studioso di teoria sociale Muñoz. Potrebbe anche essere che queer non sia né qui né ora, ma sia un’utopia, l’orizzonte carico d potenzialità e speranza, che mette in movimento, spinge al cammino. Anche in questo senso, allora, il queer è performativo: non solo perché mette in scena un modo differente di sentire, di raccontarsi e di descriversi, di esporsi allo sguardo dell’altrə, ma perché realizza, nominandosi, quelle possibilità immaginate.

Il sociologo Herbert Marcuse scriveva nel suo Eros e civiltà, capolavoro di sociologia, che in una società liberata (dai modelli massificati dei media) ogni cosa, dalle altre persone, agli animali alle piante alla natura tutta, ci sarebbe apparsa come incantevole e/o incantata, nella bellezza che in realtà già appartiene a tutto, che traluce a volte nelle opere d’arte e nella poesia. Accade per esempio nella poesia Having a coke with you di Frank O’Hara, a Muñoz cara, in cui il semplice e quotidiano gesto di “Bere una coca con te” si trasforma in qualcosa di più sublime, di qualsiasi opera d’arte. Queer è l’amore che riscrive per sé un’estetica e una socialità, che travolge e che trasporta oltre le regole (anche della grammatica).

Insomma: al queer appartiene, fortunatamente, una dimensione d’indeterminatezza, che si rivela quando giochiamo con canoni e norme passate e presenti, quando immaginiamo un futuro differente per noi e per lə altrə: riscritto da discriminazioni, liberato da difficoltà psichiche e materiali che l’incarnare un’identità marginale e non pienamente riconosciuta (o leggibile) comporta.

Queer è immaginare, queer è sperare, queer è creare comunità attraverso la narrazione. Ed è per questo, richiamando ancora la poesia O’Hara, “che lo racconto a te”.

Leggi anche
Diversity
di Valeria Pantani 4 min lettura
Sport
di Alexandra Suraj 3 min lettura