Ambiente

Perché Israele fa veganwashing?

Si definisce “il centro globale del veganismo”, ma dietro potrebbe esserci l’intento di ripulire la propria immagine dall’occupazione palestinese
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
4 settembre 2022 Aggiornato alle 08:00

Vegano. Veganissimo. Il più vegano di tutti. La retorica dello Stato di Israele sul veganesimo – gioiosamente e acriticamente rilanciata da molti media e sostenitori di Tel Aviv – è così enfatica e insistente da sembrare deliberatamente forzata. E, secondo alcune inchieste, lo è. Lo è, anzi, in maniera così sfacciata che per descriverla viene utilizzato un neologismo: veganwashing, mutuato dal ben più celebre greenwashing.

Secondo queste analisi, Israele usa il veganismo e i diritti degli animali per ripulire la sua immagine dall’occupazione palestinese – che anche le Nazioni Unite prima e Amnesty International poi hanno denunciato come apartheid – agli occhi del mondo.

Autodefinitasi “la prima nazione vegana” e il “centro globale del veganismo” grazie alla effettiva diffusione dello stile di vita plant-based che ha interessato il Paese nello scorso decennio, secondo la ricercatrice Esther Alloun Israele ha in realtà trasformato il veganisimo in un dispositivo per narrare la nazione nei termini della sovranità ebraica israeliana.

Le istituzioni israeliane, ha spiegato in un articolo sul Journal of Intercultural Studies, hanno diffuso l’immagine di Paese Vegan e Animal Friendly come segno della modernità e della moralità superiore del Paese, ma in realtà «le politiche culturali contemporanee del veganismo in Israele fanno circolare e rafforzano i miti nazionali dell’eccezionalismo legato a un’ideologia di esclusione sionista, comprese le pretese di vittimismo unico, risultati pionieristici e rettitudine morale, che rafforzano ulteriormente l’appartenenza ebraica israeliana e la non appartenenza palestinese».

Una parte della propaganda è a carico delle forze di difesa israeliane (IDF), che hanno diffuso su Twitter e Facebook post sponsorizzati, la maggior parte dei quali sono video che spiegano, in inglese, quanto l’IDF sia accomodante verso lo stile di vita plant-based dei suoi membri e quanto nel Paese sia facile essere un soldato vegano.

Israele, ci dicono i rappresentanti armati delle sue istituzioni, è un paradiso vegano di tolleranza e apertura mentale, dove i soldati possono servire il loro Paese secondo i loro principi etici, mangiando cibo vegano e indossando abiti privi di pelle, lana o altri prodotti animali.

Nel novembre 2019, secondo lo scrittore Alan Macleod, i soldati vegani nell’IDF erano 10.000 e possiamo supporre che la cifra sia aumentata, perché il numero stava già crescendo molto rapidamente. Nel frattempo, Tel Aviv ha continuato a presentarsi agli stranieri come la “capitale mondiale vegana”.

Come si coniuga questo, però, con la denuncia di Amnesty, che grazie a interviste, testimonianze e documenti ha descritto un’apartheid che tocca «diritti, politica, vita quotidiana: un sistema che domina i palestinesi a beneficio degli ebrei israeliani, privilegiati dalla legge. […]»?

«La popolazione palestinese è stata geograficamente e politicamente frammentata e subisce vari gradi di discriminazione a seconda del loro status e luogo di residenza - ha spiegato la Ong, concludendo che - tra massicce requisizioni di terre e proprietà, uccisioni illegali, trasferimenti forzati, drastiche limitazioni agli spostamenti e il diniego di nazionalità e cittadinanza ai danni dei palestinesi» è in corso una grave violazione dei diritti umani.

Come fa notare Macleod, c’è una contraddizione profonda tra veganismo – che secondo una definizione comune significa “vivere in un modo che dimostri apprezzamento per la nostra umanità, la nostra casa e coloro che la condividono con noi” – e apartheid. Eppure, questo aspetto è passato completamente ignorato, consapevolmente o meno, da chi si è fatto portavoce della retorica intrisa di veganwashing israeliana.

Non solo gran parte di quello che viene celebrato come cibo vegano israeliano (falafel, hummus, baba ghanoush, foglie di vite ripiene) è in realtà cucina delle popolazioni locali che hanno dovuto lasciare il proprio territorio per fare spazio allo Stato di Israele. La grande ironia è che secondo le statistiche dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico gli israeliani consumano la maggior parte del pollame pro capite nel mondo, con l’80% della popolazione che lo mangia ogni giorno.

Nel complesso, gli israeliani mangiano oltre 90 chili di carne ogni anno, più anche dei famosi carnivori americani. Non solo: secondo i dati della Palestine Animal League, se è vero che il 3% degli ebrei israeliani è vegano, il numero dei loro omologhi palestinesi israeliani è il doppio.

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