Bambini

Senti chi parla il “parentese”

Una ricerca pubblicata su Nature Human Behaviour ha analizzato il linguaggio semplificato che gli adulti rivolgono ai bambini, scoprendo che il baby-talk è uguale per tutti. O quasi
Credit: Ryoji Iwata/unsplash
Fabrizio Papitto
Fabrizio Papitto giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
26 luglio 2022 Aggiornato alle 21:00

Altro che inglese, la vera lingua franca è il “parentese”. A sostenerlo è una ricerca pubblicata su Nature Human Behaviour, la più ampia nel suo genere, condotta da oltre 40 scienziati che hanno raccolto e analizzato più di 1.600 registrazioni vocali prodotte in 18 lingue da 410 genitori di comunità diverse sparse in tutto il mondo.

Ma qual è la definizione esatta di “parentese”? Si tratta di un neologismo derivato dalla parola inglese parent, “genitore”, e indica il linguaggio semplificato utilizzato dagli adulti per rivolgersi ai bambini in tenera età. In italiano il “genitorese” viene indicato talvolta come “linguaggio bambinesco”, “maternese” o “madrese”, e ancora con l’espressione diffusa baby-talk.

Dal punto di vista linguistico, il “parentese” è caratterizzato da tratti che comprendono iperarticolazione delle vocali, riduzione dei nessi vocalici e consonantici, omissione di elementi grammaticali, volume alto della voce e particolare enfasi sulla curva di intonazione.

«Quando interagiscono con i bambini, gli esseri umani spesso alterano il loro modo di parlare e cantare in modi pensati per supportare la comunicazione», spiega lo studio realizzato nell’arco di tre anni.

Queste alterazioni, secondo la ricerca, sembrano essere simili in tutte le persone, in quello che potremmo definire una sorta di esperanto dei genitori. «Ovunque tu vada nel mondo, dove le persone parlano con i bambini, senti questi suoni», ha dichiarato lo scienziato cognitivo Greg Bryant dell’Università della California.

Lo studio ha inoltre riscontrato come il baby-talk presenti 11 caratteristiche acustiche che lo distinguono dai discorsi e dalle canzoni degli adulti. Per verificare se questi sono consapevoli delle differenze, i ricercatori hanno promosso un gioco intitolato “Who’s Listening?” (“Chi sta ascoltando?”) rivolto a oltre 51.000 persone di 187 Paesi rappresentative di 199 lingue.

I risultati hanno mostrato come, sottoposti a diverse registrazioni di una canzone tipicamente rivolta ai bambini (The wheels on the bus) e di una seconda tipicamente rivolta agli adulti (Hallelujah), la maggioranza dei partecipanti abbia identificato in modo rapido l’orientamento infantile.

«Il nostro studio fornisce la prova finora più efficace per verificare se ci sono regolarità acustiche nelle vocalizzazioni dirette ai bambini in tutte le culture», ha affermato Courtney Hilton, borsista presso il Dipartimento di psicologia dell’Università di Harvard e coautrice dell’articolo.

Queste caratteristiche vocali, ha aggiunto Hilton, «offrono un indizio davvero allettante per collegare le pratiche di cura dei bambini con gli aspetti distintivi della nostra psicologia umana in relazione alla musica e alla socialità».

Lo studio sembra corroborare ricerche precedenti in merito all’effetto calmante sui più piccoli di ninne nanne e schemi di linguaggio alterato, mentre secondo altre analisi il “parentese” favorirebbe l’apprendimento delle parole.

Tuttavia le sue funzionalità sono ancora oggetto di indagine, e gli studiosi invitano a non universalizzare i risultati ottenuti. «Ci sono culture in cui gli adulti non parlano così spesso con i bambini e altre in cui lo fanno molto», ha spiegato al New York Times Casey Lew-Williams, psicologo e direttore del Baby Lab della Princeton University.

«Non stiamo cercando di affermare che tutte le società hanno canti o discorsi diretti dai bambini», ha concluso il coautore della ricerca Cody J. Mose, «ma ora sappiamo che quando le persone tendono a cantare o a parlare ai loro bambini, tendono a farlo nello stesso modo».

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