Diritti

Dhaka: si fanno nuove strade per arrivare in fabbrica

Un ponte di recente costruzione accorcia la distanza tra provincia e città, avvicinando le lavoratrici del tessile agli stabilimenti. Somiglia, purtroppo, a uno sfruttamento più “veloce”. E non è la prima volta che accade.
Credit: DBL Group
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24 luglio 2022 Aggiornato alle 06:30

Essere donna e lavorare significa dover interagire con un paesaggio e le sue distanze. Che queste siano urbane o meno, non cambia la necessità di ragionare sulle dinamiche che rendono questi spostamenti più perigliosi e precari.

A Dhaka, Bangladesh, come riportato da The Economist, raggiungere il luogo di lavoro risulta essere estremamente pericoloso, soprattutto perché per chi risiede fuori dalla città la distanza fisica è talmente importante da comprendere anche la sfera notturna per essere coperta.

Perciò per molte donne, onde evitare che alla violenza del giorno si sommino anche quella della notte e dello stigma sociale, la soluzione rischia di essere quella di rinunciare al lavoro e dunque perdere un’importante fonte di indipendenza economica.

La notte, di per sé, non è nulla più che un momento della giornata, non si può considerare pericolosa in sé. Piuttosto a renderla pericolosa sono le modalità di sfruttamento delle sue caratteristiche, la presenza minore di persone, l’assenza di luce e la ridotta reazione esterna a qualsiasi evento dettata proprio dal fatto che l’essere umano abita la luce.

La notte significa solitudine e in un spazio ampio quanto vuoto, in un contesto in cui il lavoro femminile non è necessariamente valutato e, anzi, l’indipendenza viene interpretata come una minaccia, questa solitudine diventa vulnerabilità. I comportamenti violenti e predatori abusano di queste percorrenze e sono persino giustificati attribuendo la responsabilità della violenza alla vittima stessa.

Tornando a Dakha, ma anche a diverse città del mondo, la violenza di genere si somma alle problematiche relative alla sicurezza dei trasporti. Che una persona per raggiungere il luogo di lavoro debba prendere un traghetto gremito al punto da ribaltarsi e causare l’annegamento o il ferimento dei passeggeri, è un serio impedimento. Eppure, quando il lavoro è dall’altra parte del fiume, monsoni o meno, in assenza di alternative, si sale sul traghetto. Ed ecco che subentra l’azione infrastrutturale cittadina che ha elaborato la costruzione di un ponte, il ponte Padma, per ridurre i rischi e la durata della traversata. Il taglio netto ai tempi diminuisce il tempo necessario a compiere il tragitto casa-lavoro e ritorno, limitando anche l’interazione con lo spazio del buio notturno.

Un guadagno netto, che le persone possono esperire ogni giorno sulla propria pelle, quando riescono a rincasare per tempo, prima che cali la notte, o quando possono permettersi di uscire dopo che il sole è sorto. Il discorso è ampio e trasversale, basti pensare a Milano e all’allungamento della rete metropolitana. L’arrivo della metro in Comasina ha accorciato i tempi e le distanze, ha ridotto la presenza di macchine concentrandola nei parcheggi del quartiere capolinea e incanalando i lavoratori pendolari nei treni sotterranei. Meno traffico, tragitti più rapidi e meno percorsi solitari possono essere una risorsa.

Ciò che stride, in tutto questo è il fine della struttura in sé. Le costruzioni, talvolta, vengono imbellettate con la parabola della sicurezza, ma sono votate ad aumentare l’efficienza. A Dhaka l’arrivo del lavoratore, delle lavoratrici in questo caso, è funzionale alla produzione. La sicurezza è accessoria, non centrale. Il fine cambia la proposizione dell’intento e quindi il valore attribuito alle persone. Se quel percorso fosse prettamente casuale e non contestuale al lavoro sarebbe stato messo in sicurezza? E ancora, le dinamiche di precarietà e violenza si posso considerare risolte o sono piuttosto rimaste e rilocate? La violenza di genere non sparisce con un ponte o una fermata della metro e per darle un taglio servono interventi molto più pervasivi, servono delle politiche e non dei prodotti per dirla con Mark Fisher. Ciò che circonda la fermata della metro come quella dei mezzi che passano via terra sopra il ponte di Dhaka, rimane intatto. Lampioni rotti o assenti, zone isolate e percorsi accidentati.

Soprattutto, ciò che fa storcere il naso, è il tipo di lavoro da cui queste lavoratrici dipendono, quello nell’industria tessile destinata alla produzione di capi di fast fashion. Dei 4 milioni di lavoratori impiegati nel settore tessile del Balngladesh, l’80% è donna. La loro sicurezza e il loro salario sono erosi al minimo pensabile per consentire una produzione costante e massiva, quello che sta alla base del tempo di produzione che rende il fast fashion in grado di proporre nuove collezioni nell’arco di poche settimane.

La sicurezza infrastrutturale è quindi una sicurezza relativa, esistente e importante, ma non sufficiente. Parlare di sicurezza relativa, introdurre il concetto nella conversazione sulla violenza di genere e sulla sicurezza sul lavoro ci permetterà di aprire i lavori verso una sicurezza complessiva, ovvero una somma di interventi pratici connessi e intersecati a quelli culturali, necessari per combattere integralmente la violenza di genere e lo sfruttamento, arrivando anche a comprendere quanto siano connessi a loro volta.

Infatti, considerare le identità e la compresenza di forme di discriminazione sistemica permette di ragionare su cosa sia da considerare effettivamente nella cornice della sicurezza, con cosa riempire questa parola contenitore. Le infrastrutture non sono però da sottovalutare, anzi. I percorsi più rapidi hanno la capacità di incentivare la permanenza nelle scuole, di rendere un percorso notturno uno spostamento di appena due ore con il sole è ancora alto e ancora di agevolare l’accesso al mondo del lavoro. Quello che rimane da osservare in maniera critica è se sotto il nome del lavoro non si stiano annidando delle pratiche di sfruttamento.

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