Ambiente

Dopo la Marmolada, per la montagna è tempo di bilanci

Mentre si continuano a cercare i dispersi e le vittime salgono a nove, si apre il dibattito su quali vie di accesso ai ghiacciai italiani andrebbero chiuse. Ecco quelli più critici
Il monte Adamello
Il monte Adamello Credit: Cristian Riva
Tempo di lettura 5 min lettura
8 luglio 2022 Aggiornato alle 13:00

A cinque giorni dalla terribile tragedia della Marmolada è tempo di bilanci.

Il primo, chiaramente, è quello relativo alle vittime: al momento i morti accertati sono nove, ma risultano ancora tre dispersi di cui non si hanno notizie.

Ieri mattina c’è stata una nuova operazione via terra partita da Canazei: quattordici operatori e due cani specializzati hanno battuto una zona dell’area interessata dal distacco del ghiacciaio e ci sono stati “dei ritrovamenti organici e di materiale tecnico” fanno sapere i soccorritori.

I resti ora passeranno all’esame del dna.

Nel frattempo continuano le esplorazioni con i droni, gli stessi che hanno permesso di avvistare dall’alto alcuni reperti.

Purtroppo il terreno cambia di giorno in giorno e spesso per misure di sicurezza sono impossibili le battute di ricerca nell’area esatta in cui si è verificato il distacco del seracco.

In attesa di avere nuove informazioni e dare risposte ai familiari delle vittime e dei dispersi, un altro bilancio riguarda poi quello sulle temperature.

Dai dati della stazione di Punta Rocca dell’Arpav, emerge che negli ultimi due mesi le temperature medie sulla Marmolada erano più alte di 3,2°C. Dunque significativamente superiori alle medie storiche: le due decadi più calde sono state la seconda di maggio (+4.8°C rispetto alla media) e la seconda di giugno (+5.4°C ).

Un trend che sta proseguendo anche a luglio (circa +4,7 nei primi tre giorni del mese).

Inoltre, i dati raccontano che se si guarda ai valori massimi giornalieri, per ben sette volte negli ultimi mesi si è superato il valore di +10°C, con punte persino di +13.1°C il 20 giugno.

Nel giorno della tragedia del distacco, la temperatura massima registrata è stata di +10.7°C.

Tutte cifre che raccontano in maniera netta gli impatti della crisi climatica e l’anomalia termica riscontrata sulla Marmolada: se si è arrivati al crollo, è perché si sono innescate dinamiche negli ultimi anni che hanno portato a una lenta e graduale instabilità.

Sapere che stiamo vivendo, solo negli ultimi dieci anni, in almeno otto degli anni più caldi di sempre, sta portando poi - soprattutto dopo la tragedia - a un ulteriore bilancio, quello relativo alle zone che oggi garantiscono ancora margini di sicurezza oppure che sono ormai troppo rischiose.

Non è facile mappare le condizioni di tutte le vie, i cammini o i ghiacciai dell’arco alpino, ma la questione se chiudere o aprire gli accessi alle montagne è oggi al centro del dibattito fra gli stessi esperti.

In molti, dopo il crollo, hanno parlato della necessità di chiudere. Altri invece chiedono una sorta di “bandiera rossa”, come al mare, per capire quando ci sono rischi o meno in determinati territori.

Per esempio di recente l’alpinista Hervé Barmasse, il “signore del Cervino”, in una intervista ha raccontato la necessità di bollettini quotidiani sullo stato dei ghiacciai, così come bandiere rosse, segnali luminosi, o bollini online per avvertire gli escursionisti e anche l’istituzione di un comitato - con scienziati e guide alpine - che fissi dei parametri e soglie d’allarme.

Potrebbe essere un sistema per stabilire, per esempio, quali vie tenere aperte o quali chiudere lungo i 4400 ghiacciai delle Alpi, anche se chiaramente mapparli tutti è estremamente complesso e costoso.

Attualmente, secondo il climatologo e responsabile del piano GlacioRisk Luca Mercalli, in Italia ci sono circa 15 ghiacciai che sono in condizioni gravi e a rischio crollo, soprattutto sul Monte Bianco.

In generale si va da quello delle Grandes Jorasses in Valle d’Aosta a quello della Solda in Alto Adige.

Anche il Miage, a Courmayeur, colpito da diversi eventi di crollo e franosi, è fra quelli da tenere sempre d’occhio. Sul Brenva negli anni si sono contate 11 valanghe di ghiaccio. Altre zone, come la via da Chamonix verso i Grands Mulets e il Monte Bianco, o itinerari come lo Sperone della Brenva, la normale del Gran Zebrù, la parete Nord del Monviso in cui sono caduti blocchi di roccia, ormai non vengono più percorsi, così come ci sono rischi a salire l’Ortles al rifugio Payer.

Alpinisti ed esperti di montagna concordano sul fatto che serva un monitoraggio capillare dei ghiacciai, anche grazie alle nuove tecnologie, in modo da tenerli da conoscerne lo stato e per far sì che davvero tragedie come la Marmolada non si ripetano “mai più”, come ha detto il premier Mario Draghi promettendo uno sforzo del governo anche in tal senso.

In generale, i ghiacciai più interessati da possibili nuovi disastri sono quelli sotto i 3.500 metri di altitudine che per il Wwf, con la crisi climatica in corso, potrebbero sparire nell’arco dei prossimi 20-30 anni.

Il Catasto dei Ghiacciai Italiani fatto dall’Osservatorio Glaciologico Italiano ha indicato a più riprese le criticità dell’Adamello, dei Forni e del Miage, tra i tre più in difficoltà.

Il primo si sta riducendo senza sosta e aumentano probabilità di frane e valanghe in estate, nel secondo si rischiano fenomeni di collasso e cavità nel ghiaccio, nel terzo che ha perso 30 metri di settore frontale negli ultimi 30 anni ci sono varie zone instabili.

Tutte fotografie di un sistema, quello dei ghiacciai italiani, in estrema sofferenza, dove è praticamente impossibile prevedere un singolo improvviso evento di distacco, ma dove con un approfondito lavoro di selezione relativo alle maggiori criticità si potrebbe ottenere una mappa delle vie e degli accessi da chiudere prima che si verifichino altri drammi.

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