Diritti

L’omicidio di Willy e la nostra idea di giustizia

L’esultanza intorno alla condanna dei fratelli Bianchi ci dice molto di quanto siamo lontani dall’idea del carcere pensata dai Costituenti
Un murale dedicato a Willy Monteiro Duarte in piazzale Aldo Moro, punto di ritrovo nel centro storico di Paliano dove viveva il ragazzo. L'opera è stata realizzata nel 2020 da Ozmo, uno dei più famosi artisti di strada italiani
Un murale dedicato a Willy Monteiro Duarte in piazzale Aldo Moro, punto di ritrovo nel centro storico di Paliano dove viveva il ragazzo. L'opera è stata realizzata nel 2020 da Ozmo, uno dei più famosi artisti di strada italiani Credit: Rocco Spaziani
Tempo di lettura 5 min lettura
6 luglio 2022 Aggiornato alle 06:30

Tutti condannati. Ergastolo per i due fratelli Gabriele e Marco Bianchi, 23 anni per Francesco Belleggia e 21 per Mario Pincarelli. I quattro, che nella notte fra il 5 e il 6 settembre a Colleferro hanno ucciso a calci e pugni il ventunenne Willy Monteiro Duarte, colpevole di essersi messo in mezzo in una rissa scatenata da una molestia compiuta da Pincarelli ai danni di una ragazza, sono stati riconosciuti colpevoli in primo grado di omicidio volontario.

L’esultanza è stata trasversale agli schieramenti. “Giustizia è fatta” hanno detto alcuni. “Buttate la chiave!” hanno esortato altri. E se da un lato è vero che per il crimine commesso dai Bianchi con Belleggia e Pincarelli si distingue per brutalità ed efferatezza e che i due Bianchi hanno accolto la sentenza con urla e imprecazioni, è anche vero che l’obiettivo del carcere in Italia dovrebbe essere la riabilitazione e il recupero del reo.

Di fronte a questi casi è facile scoprirsi pure un po’ lombrosiani, oltre che giustizialisti. Da una parte il volto sorridente di Willy, i lineamenti ancora da adolescente, un ragazzino che non aveva mai fatto del male a nessuno e che è morto in una maniera atroce, implorando pietà, colpito anche quando era già esanime a terra. Dall’altra i Bianchi, torvi, tatuati, sopracciglia ad ala di gabbiano e una reputazione consolidata come picchiatori e spacciatori, gente abituata a seminare il terrore.

Se esiste una vittima perfetta, Willy lo era; se esistono criminali che appaiono oltre ogni redenzione, lo sono i fratelli Bianchi. È impossibile provare pietà per loro, meno che mai comprensione: sono due violenti, due assassini, lo dicevano i testimoni e ora lo dice anche una sentenza.

Tuttavia bisogna tornare sul concetto di ergastolo, elaborarlo e metterlo a contrasto con l’articolo 27 della Costituzione, che al comma 3 recita: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lo dicevamo prima: recupero, riabilitazione. Rieducazione. Il concetto stesso di “ergastolo” nega questo assunto e ci svela la vera funzione del carcere nel nostro Paese: una funzione punitiva e di protezione della comunità da persone che vengono ritenute, a torto o a ragione, immeritevoli di vivere libere e del tutto impossibili da recuperare.

La realtà della carcerazione in Italia è ben diversa e molto lontana dallo spirito del dettato costituzionale. Secondo il rapporto annuale dell’Associazione Antigone, il tasso di recidiva (vale a dire di persone che una volta uscite dal carcere tornano a commettere reati) è salito al 2,37 in media per detenuto. Meno detenuti, più recidive: questa cosa della rieducazione non sta funzionando granché bene, e del resto stiamo parlando di strutture con un tasso di sovraffollamento reale del 115%.

Con l’eccezione di alcuni istituti (fra cui spicca il carcere di Bollate), la situazione è drammatica. Difficile vedere come il carcere possa tirare fuori da una persona il meglio che ha dentro: allo stato attuale, per i detenuti è già tanto sopravvivere, quando non vengono fatti oggetto di violenza (come a Santa Maria Capua Vetere nel 2020: attualmente, per quel caso sono sotto processo 108 persone) o lasciati senza protezione e tutele nel mezzo di una pandemia.

A questa situazione di crisi si aggiungono anche altri fattori, più impalpabili, più legati al clima politico e alla cultura del nostro Paese. I fratelli Bianchi sono stati condannati per un crimine, e non – giustamente – per tutto il pregresso della loro vita: che pure esiste, ed è il sostrato su cui poggia il crimine di cui si sono macchiati. Sono stati ritenuti colpevoli di un omicidio, e solo di quello. È possibile recuperarli alla convivenza civile, quando tutto intorno a loro – e intorno a noi – dice che quell’omicidio è completamente scollegato dal machismo che permeava le loro vite?

È possibile riabilitarli, se non riusciamo a fare il collegamento fra l’omicidio di Willy Monteiro Duarte e la cultura fascista che è endemica negli ambienti da cui provenivano i Bianchi e i loro complici, oltre che dalla logica della sopraffazione che ha spinto Pincarelli a molestare una ragazza semplicemente perché pensava di poterlo fare? In un momento storico in cui i fascisti si fanno strada nei governi e nelle amministrazioni locali, siamo davvero in grado di avviare un processo di autocritica che ci porti a sradicare il genere di violenza che inevitabilmente portano nella società?

Di sicuro “Buttate la chiave” non ha niente a che vedere con la giustizia, e tutto con il bisogno di sentirci il più possibile lontani dalla brutalità delle azioni di quattro uomini con cui non vogliamo avere niente a che spartire. Questi criminali li vogliamo punire, li vogliamo far sparire: di recuperarli non ce ne importa nulla, non ci crediamo, e non ci proveremo nemmeno.

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