Futuro

Cambiare lavoro ogni 10 anni fa bene

Sempre più esperti di psicologia del lavoro la pensano allo stesso modo: scegliere un’occupazione diversa è auspicabile per tutti. Ma attenzione a dove si arriva: great resignation o grande rimpianto?
Štefan Štefančík / Unsplash
Štefan Štefančík / Unsplash
Caterina Tarquini
Caterina Tarquini giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
29 giugno 2022 Aggiornato alle 19:00

Il mito del posto fisso, ambito fino all’inverosimile da Checco Zalone nel film Quo Vado, sembra ormai dissolto. Non solo viene considerato un lusso per pochi – il 74% dei lavoratori è convinto che la carriera di una vita dietro la stessa scrivania non sia più possibile – ma, sempre più esperti di psicologia e lavoro suggeriscono che cambiare occupazione o campo ogni 10/20 anni sarebbe persino salutare.

In un articolo comparso su Bloomberg, Allison Gabriel, Professoressa di Management and organizations all’Università dell’Arizona a Tucson ha parlato di un cambiamento epocale nel mondo del lavoro: «Le persone decidono dopo 10 anni o più di stravolgere le proprie carriere». La principale ragione sarebbe provare qualcosa di totalmente nuovo.

È importante, secondo Gabriel, allungare la propria lista di contatti: è utile, in questo senso, dedicare del tempo alla formazione per aggiungere competenze, sia grazie a corsi online che trascorrendo del tempo in biblioteca o iscrivendosi a una scuola di specializzazione. I 10 o i 20 anni possono rappresentare un giro di boa da cogliere al volo.

Ridefinirsi in ambito lavorativo può infatti stimolare una rivalutazione complessiva dei propri bisogni e obiettivi anche, per esempio, in ambito familiare. Certamente la pandemia ha giocato un ruolo cruciale: l’emergenza sanitaria e l’isolamento hanno portato con sé anche il fenomeno della Great Resignation, dilagato un po’ in tutto il mondo. In base ai dati del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, circa un anno fa è stato toccato il picco record di 4,6 milioni di americani che hanno rassegnato le dimissioni.

Gabriel consiglia di non assecondare l’impulso di licenziarsi su due piedi: «È così che si passa rapidamente dalla propria Great Resignation al più grande rimpianto». Gli studi dimostrano che tutti gli aspetti della nostra vita, dagli amici agli eventi geopolitici, possono influenzare i sentimenti e le sensazioni riguardo al proprio lavoro. «Spesso cambiare il tipo di persone con cui si interagisce aiuta».

Uno studio di McKinsey&Company, che ha coinvolto quasi 6000 persone in età lavorativa in Australia, Singapore, Regno Unito, Stati Uniti e Canada, ha rivelato che il 36% dei soggetti che si sono licenziati, lo ha fatto senza avere ancora la certezza di un nuovo posto di lavoro. A livello globale, il 46% dei lavoratori era convinto che avrebbe cambiato mestiere nel 2021 nel giro di 4/6 mesi, il 53% dei datori di lavoro ha affermato di optare per un turnover volontario maggiore rispetto al passato e il 64% la considera una tendenza permanente.

Dati che sembrano confermati anche in Italia dal rapporto dell’Osservatorio HR del Politecnico di Milano sul 2021: nell’ultimo anno il tasso di turnover è aumentato per il 73% delle aziende italiane. Sembra difficile per gli ambienti lavorativi riuscire a motivare, coinvolgere e spingere a rimanere le persone presenti. Il 45% degli occupati dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo nel giro di 1 anno e mezzo.

Numeri che crescono in maniera inversamente proporzionale all’età (18-30 anni) e specialmente per determinati settori (ICT, Servizi e Finance) e per alcune figure (per esempio le professionalità digitali). Uno dei dati più significativi è che tra le persone che hanno cambiato lavoro, ben 4 su 10 lo hanno fatto senza un’altra offerta di lavoro al momento delle dimissioni.

È un cambiamento che non riguarda solo i giovani o i dipendenti di medio livello. Uno dei motivi per cui anche persone in posizioni di vertice abbracciano un cambiamento così radicale è che i ruoli di rango più alto spesso si rivelano meno appaganti.

Alle volte, infatti, i compiti manageriali creano una distanza con gli altri dipendenti, con le attività pratiche e con gli aspetti maggiormente operativi. «Più raggiungevo l’anzianità, più spendevo tempo a monitorare e controllare gli altri, piuttosto che a fare - racconta a Bloomberg Greg Wilson, un ex broker - Ho capito che non era quello che volevo».

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