Economia

Quali sono le ragioni dell’inflazione? Guardiamoci dentro

Oltre Ferruccio de Bortoli, diversi economisti si sono pronunciati sul tema, colpevolizzando le misure legate al superbonus. In realtà, però, non è proprio così
Credit: Maxim Hopman/unsplash
Azzurra Rinaldi
Azzurra Rinaldi economista
Tempo di lettura 7 min lettura
14 giugno 2022 Aggiornato alle 06:30

L’economia occidentale è in condizioni preoccupanti. Il dibattito si concentra sull’inflazione e il prospettico rallentamento della crescita, manifestatosi proprio quando i sistemi si stavano riprendendo dopo la chiusura delle attività decise per contenere la pandemia. Lo spettro della stagflazione viene evocato, pensando alle condizioni che si erano manifestate negli anni Settanta con i due shock petroliferi.

Ma le condizioni attuali sono ben diverse: il cambiamento climatico, la guerra, la carestia, la prosecuzione in certi Paesi delle severe politiche anti-pandemia non erano presenti negli anni Settanta, come del resto l’accelerazione dell’innovazione tecnologica di questi tempi. E dunque, ci si chiede se in questo caso esistano politiche monetarie e fiscali adatte a contenere l’inflazione e insieme impedire il blocco della crescita.

In Italia, non manca chi addossi la responsabilità dell’inflazione alle scelte del governo, additando a esempio il superbonus edilizio, la mancata liberalizzazione di certe concessioni, le lentezze sulla riforma fiscale. Secondo altri, invece, la politica espansiva del governo è necessaria proprio in vista della stretta monetaria e delle necessità di contrasto al cambiamento climatico.

Per farsi un’idea occorre comprendere le cause dell’inflazione, la vera novità del momento. E poi valutare le politiche.

Inflazione e borse

Partiamo dalle Borse. Perché dopo gli ultimi dati sull’inflazione, arrivata in UE ai livelli record dell8,1% (con un + 3,7% dei prezzi dell’energia), gli annunci della BCE dei giorni scorsi hanno causato grande agitazione sui mercati.

Le incertezze arrivano da un lato dal rialzo dei tassi previsto per giugno e luglio e dallaltro dall’eventualità che lo scudo anti-spread, che dovrebbe tra gli altri proteggere anche il nostro Paese, in realtà possa non arrivare in tempi rapidi e che possa non essere particolarmente incisivo. Da questi annunci, la Borsa di Milano è stata colpita più delle altre, con lo spread tra BTp e Bund volato oltre i 230 punti base.

Ma nel resto del mondo, la situazione non è molto più rosea. Lo scorso venerdì, i dati sull’inflazione USA, a livelli record dal 1981, si sono rivelati di molto superiori rispetto alle aspettative. Parliamo di un 8,6% di inflazione (con un 6% dell’inflazione cosiddetta core, ovvero depurata di alimentari ed energia). E di una reazione della Fed che non potrà che consistere in un rialzo dei tassi (secondo Barclays, fino a 75 punti base).

I timori per linflazione degli Stati Uniti ha colpito anche la Borsa di Hong Kong, crollata in avvio di seduta: l’indice Nikkei ha perso il 3%, lo Yen è ai minimi storici dal 1998.

In Europa, anche economie solide come quella tedesca vacillano: secondo l’Ufficio federale tedesco di statistica Destatis, a maggio l’inflazione nel Paese ha toccato il livello record del 7,9%. L’ultima volta, era accaduto nel 1973, a causa della crisi petrolifera. E anche in questo caso, per la Germania l’aumento dell’inflazione deriva da una crisi energetica. L’impatto attuale ovviamente è legato all’invasione russa in Ucraina, che porta con sé un incremento dei prezzi dell’energia pari a oltre il 38% su base annua rispetto a maggio del 2022.

Cosa accade in Italia

Ed arriviamo all’Italia, perché sul nostro paese la decisione della BCE di innalzare i tassi rischia di provocare una preoccupante onda lunga.

Il rialzo dei tassi è funzionale per contrastare linflazione, insieme alla fine del Quantitative Easing (che finora ha agevolato la circolazione di moneta nelle economie europee e non solo). Queste misure rischiano, tuttavia, di ripercuotersi negativamente sulle economie europee più fragili.

I Paesi che presentano un peggiore parametro debito/PIL (e quindi, anche l’Italia) sono quelli che rischiano di più, a fronte di una ripresa che era molto attesa, ma che invece si sta rivelando inferiore rispetto alle previsioni, anche a causa degli avvenimenti internazionali.

Secondo i dati contenuti nel Report Istat “Le prospettive per leconomia italiana 2022-2023”, il PIL italiano continuerà a crescere sia nel 2022 (+2,8%) sia nel 2023 (+1,9%), con valori molto più modesti rispetto a quanto non si pensasse prima della guerra.

Anche il Rapporto di primavera del Centro studi di Confindustria ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita del PIL (dal +4% al +1,9%). Questo evidenzia peraltro gli effetti dell’incremento dei prezzi legati all’approvvigionamento energetico sulle imprese, quantificandoli in 68 miliardi di spesa in più su base annua.

Istat rincara la dose: nei prossimi mesi, gli scambi internazionali potranno contrarsi ulteriormente, i tassi di interesse aumenteranno e questo comporterà prevedibili conseguenze sul livello delle aspettative di famiglie e imprese.

Cosa fare?

È indubbio che siamo di fronte a una crisi che non è solo energetica, ma che possiamo definire paradigmatica. Dobbiamo a questo punto dare per scontata la scelta della BCE di sparare con il cannone del rialzo dei tassi sull’inflazione, senza distinguere le sue componenti e senza agire in modo mirato sulle sue cause. Di conseguenza dobbiamo anche pensare che il governo dovrà sostenere la crescita puntando sugli investimenti e le innovazioni che più possono valorizzare le risorse economiche che si possono mettere in campo.

Prendersela con il superbonus per il suo contributo all’inflazione quando lo stesso aumento dei prezzi si verifica in molti Paesi dove il superbonus non è stato introdotto è irrazionale. Si devono piuttosto distinguere le misure di sostegno alla domanda che vanno salvaguardate perché generano effetti positivi di crescita e di risparmio energetico superiori a quelli inflattivi.

Il MEF ha fatto notare che secondo uno studio di Open Economics e Luiss Business School, l’impatto economico del superbonus 110% (che comprende spese per interventi antisismici e di efficientamento energetico sugli edifici) deve essere valutato tenendo conto di un insieme complesso di fenomeni: il valore aggiunto complessivo prodotto dall’incremento di spesa per i lavori di ristrutturazione, l’incremento del valore patrimoniale degli immobili, la quantificazione dell’efficientamento energetico generato, la riduzione del costo delle bollette e le conseguenze di regime sull’intero sistema economico.

Osserva il MEF: «Tra i risultati principali di questa analisi emerge che, a fronte di un aumento della spesa per edilizia abitativa pari a 8,75 miliardi nel triennio 2020-2022, si registrerebbe un incremento del valore aggiunto complessivo per il Paese di 16,64 miliardi nel periodo di attuazione del provvedimento e un ulteriore incremento di 13,71 miliardi negli 8 anni successivi a fronte di un impatto netto attualizzato sul disavanzo pubblico pari a -811 milioni di euro». Il sostegno alla crescita con risparmio energetico sarebbe dunque un’apprezzabile conseguenza del superbonus.

Se le cause dell’inflazione sono nelle fonti fossili di energia, mentre la ripresa della domanda dopo la crisi del 2020 sembra essere meno importante e le famiglie più fragili possono trovarsi di fronte a rischi pesanti, le azioni del governo devono essere articolate in modo attento.

Oltre a intervenire per contenere gli incrementi dei prezzi, le istituzioni dovranno sostenere le famiglie più colpite, agevolando al tempo stesso la transizione energetica (come ha recentemente affermato, tra l’altro, il Direttore Generale della Banca d’Italia Luigi Federico Signorini).

Le dimensioni della transizione sono enormi e la strategia deve tenere conto delle urgenze a breve termine ma anche delle necessità a lungo termine. Considerando che per riqualificare e decarbonizzare 53 milioni di unità immobiliari italiane energeticamente inefficienti entro il 2050 occorreranno 2 500 miliardi, si dovrebbero investire dunque circa 100 miliardi all’anno. Un impegno da affrontare con un senso strategico e una continuità politica non indifferenti. Forse inarrivabili, ma si spera avvicinabili.

Le sue conseguenze positive, secondo lo studio citato, potrebbero essere più importanti di quelle negative. Non si può fare altro che guardare avanti e il futuro del Paese non può essere legato all’uso di fonti fossili. E se un piano deve esserci, non può che basarsi su due pilastri.

Sotto il profilo più strettamente monetario, occorre garantire una protezione dei nuclei più fragili di fronte all’inflazione e alle conseguenze che deriveranno dalla stretta monetaria. Sotto quello della transizione energetica, è necessario andare nella direzione di una riduzione degli sprechi energetici, sostenendo con gli incentivi necessari un passaggio sistemico all’utilizzo delle fonti rinnovabili che altrimenti, per le famiglie e le imprese più fragili, in questo momento rischia di essere troppo oneroso da sostenere.

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