Diritti

Tu conosci il rainbow washing?

In occasione del mese del Pride, i brand che lanciano iniziative a supporto della comunità Lgbtqia+ sono tantissimi. Peccato però che l’impegno promesso non sempre si traduce in azioni concrete
Credit: Danil Motovilov
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
Tempo di lettura 7 min lettura
10 giugno 2022 Aggiornato alle 13:00

Ma è vero impegno o solo marketing?

Inutile negarlo: quando ci si trova di fronte a campagne, collezioni o altre iniziative dal risvolto sociale, il dubbio che il brand promotore sia spinto solo da scopi commerciali e nulla più si insinua nella mente. Il motivo primario di tale diffidenza è la concentrazione di queste azioni nello stesso periodo.

Succede a esempio con la parità di genere, in concomitanza dell’8 marzo o del 25 novembre (festa della donna e dell’eliminazione della violenza su queste ultime), con la salvaguardia del mare in occasione della giornata mondiale degli Oceani l’8 giugno e, sempre in questo periodo, per quanto riguarda le tematiche Lgbtqia+.

Già, perché in ricordo dei duri scontri che avvennero a Stonewall tra omosessuali e polizia il 27 giugno 1969, giugno è il mese del Pride e sui social ma non solo è tutto un fiorire di bandiere arcobaleno e campagne di sensibilizzazione, portate avanti da questo e da quel marchio.

Intendiamoci, non c’è nulla di male nel cogliere il momento per veicolare messaggi positivi, a patto però che alle parole seguano i fatti.

In caso contrario si parla di rainbow washing, un termine che, evolutosi dai più noti green e pink washing, identifica l’operato di alcune aziende che dichiarano supporto alla comunità lgbtqai+ senza però tradurre l’impegno in azioni concrete.

L’ultima in ordine di tempo a essere accusata di questo fenomeno è Burger King, che in Austria ha lanciato una nuova versione del celebre panino Whopper formato per l’occasione da due parti uguali, entrambe alte o basi, disponibile fino al 20 giugno. Nonostante, come dichiarato tramite social, l’intento fosse di promuovere “uguale amore e uguali diritti” in rete le polemiche non si sono fatte attendere e in assenza di prove di azioni tangibili i dubbi che si tratti di rainbow washing sono più che fondati.

Prima di loro sono stati accusati di ciò anche Barilla, il cui presidente Guido nel 2013 aveva dichiarato «Non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale», salvo poi creare nel 2018 packaging di pasta in limited edition con illustrazioni saffiche a opera della designer Olimpia Zagnoli, e molto più recentemente Disney.

Il colosso amato dai bambini di tutto il mondo, a marzo di quest’anno è finito nella bufera perché, se pubblicamente si dichiarava a favore della comunità Queer e Lgbtqia+, includendo questo tema nelle trame di molti nuovi cartoni animati, nell’ombra avrebbe finanziato politici a favore della legge della Florida ribattezzata Don’t Say Gay, che impedisce che in tutte le scuole pubbliche fino alla terza elementare si possa fare riferimento all’orientamento sessuale e all’identità di genere.

Sotto il fuoco di fila dei diffidenti è finita anche Chiara Ferragni, che a San Valentino 2022 ha lanciato insieme a Arcigay Milano la campagna #LoveFiercely, in favore dell’amore senza barriere né distinzioni, mossa che molti hanno visto come l’ennesimo modo per l’imprenditrice digitale per far parlare di sé.

Ma tornando al presente e alle tantissime aziende che hanno deciso di farsi arcobaleno in occasione del Pride Month 2022, una cosa è certa: capire chi sia animato da buone intenzioni e chi solo dalla voglia di posizionarsi meglio non è semplice, anche se su alcuni nomi ci si potrebbe quasi sbilanciare, come quello di Donatella Versace.

Da sempre, anche insieme al fratello Gianni, concretamente attenta alla causa Lgbtqai+, la stilista ha lanciato proprio in questi giorni una capsule collection in collaborazione con Cher dal nome CHERSACE, cui parte del ricavato sarà devoluto a Gender Spectrum, un’associazione che supporta in maniera diretta i membri della comunità Lgbtqia+, in particolare bambini e giovani.

«Ho sempre sognato di collaborare con Cher e finalmente il sogno è diventato realtà! Sono felice di poter supportare questa associazione che è in grado di esercitare un così forte impatto positivo, soprattutto sulle giovani generazioni», ha dichiarato Donatella. La limited edition, disponibile sul sito Versace.com, comprende t-shirt e accessori decorati con il logo CHERSACE e un messaggio di amore e unità dedicato al mese del Pride.

A rendere l’impegno della stilista ancora più credibile è anche la notizia diffusa poco meno di una settimana fa, il primo giugno 2022, della nascita della The Versace Foundation da parte della Capri Holdings Limited, a cui fanno capo i marchi Versace, Michael Kors e Jimmy Choo.

La fondazione s’impegnerà con organizzazioni filantropiche e gruppi comunitari a sostenere la conservazione della storia e della cultura Lgbtqia+ e a promuovere il progresso dell’uguaglianza, del benessere e della sicurezza di tutta la comunità.

Anche Puma ha deciso di puntare sui testimonial a effetto, presentando la capsule d’abbigliamento Together Forever, insieme alla global ambassador dichiaratamente lesbica, Cara Delevingne.

La collezione incoraggia ad alzare la voce e a celebrare la propria forza ed è stata disegnata all’artista queer Carra Sykes.

Non manca nemmeno qui la formula collaudata composta da messaggio ispirazionale più donazione economica, visto che il 20% del ricavato, con un minimo di 250.000 dollari, sarà devoluto a favore di Glaad, un’organizzazione che si impegna a garantire rappresentazioni eque, accurate e inclusive della comunità Lgbtqia+.

Ma la lista dei marchi che sposano la causa non finisce qui, anzi potrebbe dirsi quasi infinita.

C’è Zadig & Voltaire che dona il 10% di una capsule rainbow creata per l’occasione all’associazione artistica Queer|Art; Fossil che devolve il 100% dei proventi delle vendite di una linea di orologi a tema Pride all’associazione The Trevor Project; Borsalino che con cappelli dai dettagli arcobaleno aiuta l’associazione di Alessandria Tessere le Identità, a promuovere azioni di solidarietà sociale.

E ancora, Diesel che collabora con la Tom of Finland Foundation a un progetto di sensibilizzazione ad ampio raggio che comprende mostre, capsule e non solo; e Mulac che veste di arcobaleno il suo celebre olio per capelli trasformandolo in prideberry e devolvendone il 10% del ricavato alla cooperativa sociale Casa Arcobaleno di Spazio Aperto Servizi, per l’apertura di nuove case per chi viene discriminato dalla propria famiglia.

Queste sono solo alcune delle iniziative al momento note ma, considerando che il mese del Pride è appena iniziato, è molto probabile che la lista si allunghi, così come la scia delle polemiche e accuse legate a eventuali rainbow washing.

Come detto, che siano fondate o meno è quasi sempre difficile da capire, ma il dubbio che, quando il foglio del calendario di giugno verrà strappato, i riflettori sulla causa si spegneranno resta, almeno stando ai dati poco edificanti diffusi dall’Istat in merito a lavoro in Italia e persone Lgbtqia+.

Sebbene la stragrande maggioranza degli intervistati dichiara che il proprio orientamento sessuale sia sempre stato noto almeno a parte dei colleghi, il 40,3% riferisce, in relazione all’attuale o ultimo lavoro svolto, di aver evitato di parlare della vita privata per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale, e una persona su cinque di aver evitato di frequentare persone dell’ambiente lavorativo nel tempo libero per non rischiare di rivelare il proprio orientamento. Come se non bastasse, circa sei persone su dieci hanno sperimentato almeno una micro aggressione nell’attuale o ultimo lavoro svolto.

Insomma, se è corretto dire che non tutte le aziende facciano rainbow washing, lo è altrettanto sostenere che colorarsi di arcobaleno 30 giorni l’anno non sia più sufficiente.

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