“James Brown si metteva i bigodini”: storie di identitaria follia

Partiamo dal fondo. Partiamo dal fatto che il libroJames Brown si metteva i bigodini,(Adelphi, 102 pagine, 12 euro)non è,e non ha la pretesa di essere,una spiegazione strutturale e profonda della società.In un primo momento, si può cadere nel facile errore di un approccio all’opera diverso da quello che dovrebbe essere ed è la stessa autrice adaffermarlo nelle sue interviste: «Gli scrittori non sono saggi e io difendo lo scrittore come non-intellettuale». Yasmina Reza,anche in questa pièce teatrale andata in scena a Parigi alla fine dell’anno scorso e ora in libreria, si conferma tra lecommediografe contemporanee che riesce meglio a porci di fronte la parodia di noi stessi. Ma ancor di più riesce a farlo con una grazia tale che, senza la giusta attenzione, diventa difficile perfino accorgersene. Il libro, da leggere d’un fiato nel tempo di un tragitto in treno,è il continuo della storia di tre personaggi già conosciuti inFelici i felici. Lasciato appositamente sotto forma di copione,segue le vicende della famiglia Hunter nella clinica psichiatrica dove, alla fine del primo romanzo,i genitori Lionel e Pascaline decidono di trasferire il figlio Jacob, che già allora si credeva Céline Dion. Ed è esattamente qui che senza la giusta premessa si può cadere nell’errore citato prima. Il testo è unsusseguirsi di dialoghi al limite del surrealein grado di far sobbalzare, ridere e anche stare male. Accanto ai tre protagonisti, troviamouna psichiatra che sfreccia in monopattinotra i corridoi della clinica e che incentiva i suoi pazienti a esprimere la propria identità, senza ostacolarla, mai, e facendo credere loro di trovarsi in una beauty farm. Poi c’èPhilippe, l’imprevedibile amico di Jacob all’interno della struttura,un ragazzo che lotta contro lediscriminazioni razzialie per i diritti delle persone nere come lui, anche se in realtà la sua carnagione è bianchissima:Philippe però crede e pretende di esserlo, dunque lo è. Il legame tra i due è basato proprio su questo principio:Philippe vede e tratta davvero Jacob come Céline Dion in pausa dal suo tour e, allo stesso modo, agli occhi di Jacob, l’amico è nero. Punto e basta. Nessuno dubita dell’altro, perchése dici di esserlo lo sei. Ai latii genitori, figli dell’alta borghesia e dei valori associati a essa. Cresciuti con canoni sociali da rispettare e regole ben precise da seguire, cercano di trovare il lato positivo nella storia (almeno, la madre), ma per quanto ci provinonon riescono a essere complici di una vicenda per loro tutt’altro che normale e accettabile. Così si rifiutano di chiamare il figlio “Céline”, vedono Philippe con la vera carnagione e reputano la psichiatra inaffidabile e svampita.Su di lei, però, al tempo stesso, cercano di fare colpo perché questo impone la società, così le portano caramelle di gelatina durante gli orari di visita. Lionel e Pascaline, che giorno dopo giorno alimentano un senso di frustrazione tale da trasformarsi poi in esaurimento, sono esattamente il riassunto del lavoro che Reza fa in queste 100 pagine: mostrare ilnecessario bisogno di essere riconosciuti e accettati dagli altrie far emergere tutti quegli schemi mentali che, inevitabilmente, ci imprigionano. Un lavoro in cuila realtà si mescola con il surreale.Dove il normale non è più normale e il non-normale lo diventa, con lo scopo di far ridere, intrattenere e, per chi vuole, aprire gli occhi. Senza la presunzione di trovare una spiegazione scientifica della società. Che poi altro non è che la riscoperta del ruolo puro dell’arte fin dai tempi dell’antica satira latina.