Programmi tv Usa: le madri sono (ancora) stereotipate

Scena Uno. C’è unadonna, evidentementeincinta, in fila alla casa del supermercato; ha il carrello pieno.Tutte le persone la fanno passare, nemmeno fosse Mosè davanti al Mar Rosso. Il cassiere le sorride. Scena Due. C’è un’altra donna (ma potrebbe essere la stessa), solo qualche anno più anziana, è sempre in fila, sempre con il carrello pieno, maadesso ha con sé un bambino.Nessuno la degna di uno sguardo, il cassiere appare scocciato perché la madre evidentementenon sa tenere a bada i figli.Lei,aspetta il proprio turno. Da dove vengono queste immagini? E, soprattutto, da dove vengono i comportamenti che adottiamo di fronte a certe situazioni? Da dove recuperiamomodelli di comportamenti che riteniamo adeguati, appropriati, e quindi giusti,al punto da farli nostri? Visto che viviamo in una società sempre più mediata, non dovrebbe sorprendere se anche i mass media ci forniscono questi modelli. Sarebbe, quindi, il caso di prestare più attenzione se vogliamo contribuire a creare società migliori e più vicine alle famiglie, ma soprattutto allemadri. È ciò che ha deciso anni faGeena Davis(proprio lei, la co-protagonista insieme a Susan Sarandon del cult movieThelma e Louise) quando ha cominciato a prestare attenzione acosa guardava sua figlia in televisione.Da qui a fondare ilGeena Davis Institute on Gender in Media,il passo è stato breve. Il motto dell’istituto e“If she can see it, she can be it”(“Se lo può vedere, può esserlo”). Negli ultimi anni, si sono moltiplicate le piattaforme, ma leserie tv restano una fonte di intrattenimento importante per famiglie.La televisione di oggi non racconta bene cosa significhi davvero essere genitori e soprattutto cosa significhi essere madri. È ciò che ci diceRe-writing Motherhood: How TV represents Moms and what we want to see next,una ricerca, unica nel suo genere, pubblicata a marzo dalGeena Davis Institute. Fondato nel 2004, l’istituto si pone proprio lo scopo di “mitigare la cosiddettaunconscious biase al contempo creare uguaglianza, inclusionee ridurre glistereotipi negativi nei mediae nel mondo dello spettacolo,” nonché di elaborare raccomandazioni e buone pratiche per chi lavora nell’industria televisiva, con speciale attenzione alle rappresentazioni di genere, Lgbtq+,race & ethnicity, disabilità, età, e tipologia di corpo. Tutto ciò per migliorarne i contenuti, ma anche per sviluppare unambiente lavorativo più flessibileper le categorie tradizionalmente discriminate. Re-writing Motherhood, per esempio, è stato svolto in partnership conMoms F1rstdi Reshma Saujani, già fondatrice di#GirlsWhoCode.MomF1rstlavora per aumentare e migliorare i servizi per l’infanzia, per il sostegno al congedo parentale (negli Stati Uniti per legge non esiste il congedo pagato, sebbene molte aziende lo abbiano istituito al proprio interno) e per l’equiparazione degli stipendi tra uomini e donne. Anche Meghan Markle con laArchewell Foundationha finanziato lo studio. La ricerca ci dice che esiste unoscarto tra le rappresentazioni mediatiche e culturali dell’esseremadrie il vissuto delle donne. Questo contribuisce a far sentire le donne sbagliate, inadeguate, incapaci, rispetto a rappresentazioni che non prevedono un’articolazione, per dire, del carico mentale, di attività centrali alla vita domestica quali sistemare i panni, pulire il bagno o aiutare i/le bambini/e piccoli/e a lavarsi e vestirsi. Laquotidiana esperienza dell’essere madri non è rappresentata in televisionee, quando lo è, ricade spesso sumodelli stereotipati. D’altra parte, la carenza di asili, la chiusura delle scuole e la precarietà occupazionale nei due anni di pandemia hanno portato tante donne lavoratrici a sobbarcarsi ulteriormente il lavoro di cura domestico, perché le nostre società ancora si aspettano che siano le donne a farsene carico. Sebbene infatti nella realtà le madri che lavorano oggi siano più produttive delle donne senza figli, continua lo studio delGeena Davis Institute,subiscono la cosiddettaMotherhood Penalty,sono cioè “soggette a mancate promozioni, a demansionamenti, compiti di minor responsabilità e in genere penalizzate quando chiedono un orario più flessibile”. D’altra parte, i padri usufruiscono invece delFatherhood Bonus, segno che anche se i ruoli cambiano e sempre più madri lavorano, le aspettative sociali non sono molto mutate: infatti,le madri guadagnano solo62 centesimiper ogni dollaro guadagnato dai padri. La ricerca ha analizzato261 programmi(il 54% del totale) usciti nel 2022 che presentavano tra i personaggi madri. Se il modello alla June Cleaver diLeave it to Beaver,l’archetipica dea del focolare domestico, resta duro a morire, sono tante le immagini dimamme moderne che popolano gli schermi televisivinelleserie americane.L’analisi dei dati, però, restituisce un quadro tutt’altro che incoraggiante. Quando una famiglia televisiva ha un chiarobreadwinner,ancora oggi9 volte su 10 è il padre,nonostante prima del Covid il 44,4% delle madri lavoratrici con figli e figlie tra i 6 e i 17 anni guadagnassero almeno la metà del reddito famigliare. Inoltre, l’85% dei genitori riconosce la difficoltà di coordinare la cura di bambini e bambine; le case televisive, poi, sono sempre in ordine e pulitissime (meno di 1 su 10 è disordinata) esolo il 15% dei genitori viene rappresentato mentre svolge mansioni domestiche. Insomma, il lavoro di pulizia è oscurato e quindi, si presume, assente, o quantomeno delegato. Soprattutto,le mamme sono per lo più bianche, magre e attraenti, e lo sforzo che va nel tenersi in forma non è mostrato. La ricerca fornisce indicazioni per creare rappresentazioni più realistiche, meno edulcorate, e tenta di evidenziare il carico mentale delle madri, gli sforzi per trovare un babysitter; chiede, insomma, a chi scrive i programmi televisivi di essere più aderenti alla realtà. Consiglia, soprattutto, difacilitare il lavoro alle madri sceneggiatrici,perché per chi vive la quotidianità del barcamenarsi tra figli, lavoro e casa è più facile immaginare scene realistiche. La ricerca del 2021 diMotherlyrivela infatti cheil 92% delle madri ritiene che la società non le capisca né le sostenga. E pensare che durante la Seconda guerra mondiale, quando 6 milioni di donne entrarono nella forza lavoro negli Stati Uniti mentre gli uomini si trovavano oltreoceano a combattere, venne istituito un programma nazionale di servizi per l’infanzia. Come evidenzia il documento delCongressional Research Servicededicato a questo tema, le donne sposate sorpassarono per la prima volta quelle single nella composizione della forza-lavoro. Il programma, però, venne abbandonato appena terminato il conflitto, il che contribuì al rientro nelle case di tante (ex) lavoratrici, un ritorno al domestico, e a quella che Betty Friedan ha chiamato “the feminine mystique,” nel libro omonimo che contribuì a lanciare la seconda ondata del femminismo statunitense. Le rappresentazioni mediatiche,osservavaStuart Hall, critico culturale e propulsore deiBritish cultural studies, contribuiscono alla costruzione sociale di chi siamo, entrando a far parte del nostro modo di vedere le cose, di parlare di queste stesse rappresentazioni: e così vanno a costituire la nostra realtà. Contrariamente a quel che si crede, infatti,i media non “riflettono” né “modellano” semplicemente la società. La relazione tra rappresentazioni mediatiche e società è spiegabile con un modello circolare. Nella costruzione di cosa significhi essere madre oggi ci sono le influencer accanto ai modelli “reali” in famiglia. Si tratta insomma di unarelazione sempre più intima, penetrante, invasiva.Per questo, ne parliamo, per questo ricerche (e relative raccomandazioni per l’industria televisiva) come quella delGeena Davis Institutesono fondamentali per rendere le nostre società più eque e soprattutto alleate, amiche davvero, delle madri. La Svolta non è riuscita a trovare una ricerca analoga per il contesto televisivo italiano. È interessante, però, notare che le due scene in apertura del pezzo si riferiscono al prodotti italiani; negli Stati Uniti c’è più “galanteria” nei confronti delle madri. Specularmente, l’inglese “motherhood” non si traduce in “maternità,” termine che nella nostra lingua indica solo il periodo in cui una donna è in gravidanza e i mesi successivi.