La diversità etnica produce ricchezza (anche economica)

Chi ha paura dellasostituzione etnicadovrebbe starsene tranquillo. Secondo ilGlobal Burden of Diseases, Injuries, and Risk Factors Study (Gbd)redatto dall’Università di Washington, già dal 2050 la popolazione mondiale inizierà ad affrontare una fase critica sotto il profilo demografico. Saremo sempre meno. Nel 2100, poi, il 97% dei Paesi (stiamo parlando di 198 Stati su un totale di 204 riconosciuti a livello mondiale) scenderanno sotto la soglia dei 2,1 figli per donna, necessari per “rimpiazzare” demograficamente quantomeno entrambi i genitori. Enel 2100, saranno solo 3 i Paesi del continente africano che riusciranno a superare questa soglia,secondo le previsioni contenute nello studio: la Somalia (con 2,45figli per donna), il Niger (con 2,24) e il Ciad (con “appena” 2,15). Certo, una preoccupazione in meno per i sostenitori della sostituzione etnica, una teoria delirante secondo la quale sarebbe in atto uncomplotto internazionale per sostituire appunto le persone cosiddette “bianche”con quelle di altre etnie. In realtà, sotto un profilo meramenteeconomico, una grandeoccasione mancata.Perché, di fronte a un sistema globale in continuo mutamento, ancora una volta stiamo rischiando diperdere di vista il quadro più ampioche intreccia i diritti con l’efficienza economica. Infatti, checché ne dicano questi signori, ladiversità consente di produrre maggiorericchezza, non solo culturale.Quantomeno, è quello che emerge (ancora una volta) dall’ennesimo studio a riguardo, quello elaborato e pubblicato daMcKinseycon il titoloEthnocultural minorities in Europe: A potential triple win. Dati alla mano, questo report sottolinea in primo luogo chec’è un crescente bisogno di forza lavoroche, in Unione europea, non viene soddisfatto: la quota deiposti vacanti è cresciutanel corso degli ultimi anni, passando dal 2,2% del 2019 al2,9% del 2022. E non stiamo parlando solo dei tradizionali settori a basso valore aggiunto in cui convogliamo laforza lavoro straniera, come l’assistenza sociale o l’edilizia, ma facciamo riferimento anche a settori a elevato valore aggiunto, come quelli dell’ingegneria o dei software. Allo stesso tempo, lo studio diMcKinseyrivela lanecessità di aprire il mercato del lavoro alle persone che appartengono a minoranze etnoculturali,identificate con la siglaEme(Ethnocultural Minority Employees).Basandosi su dati raccolti in 150 multinazionali dislocate su Belgio, Italia, Danimarca, Francia, Germania e Paesi Bassi, la ricerca punta il faro sulla capacità produttiva che sarebbe associata a una maggiore occupazione delle persone appartenenti alle minoranze etnoculturali. Qualche esempio? Uno su tutti:il Pil europeo potrebbe aumentare del 4%, per un incremento di ricchezza dell’ammontare pari a 120 miliardi di euro. Perché ciò avvenga, sarebbe necessario, certo, un cambio di passo prima di tutto culturale, unamaggiore aperturain generale,meno diffidenza, meno rancore,quantomeno nel nostro Paese. Almeno, stando a quanto emerge dall’indagine diIpsosperAmref Italia,Africa e salute: l’opinione degli italiani. Il report si basa su un questionario somministrato a un campione rappresentativo di 800 persone. Gli esiti sonosconfortanti. Chiedendo la quota di cittadini africani sul totale degli stranieri, il 34% dei rispondenti sbaglia, perché nesovrastimala presenza. Ben il 53% pensa che i cittadini africani residenti in Italia sono comunque troppi. E anche che non sono adeguatamente amalgamati con gli italiani. Ovvio, la colpa è loro, eh. Almeno, secondo il 31% delle persone intervistate, per cui la motivazione di questasegregazionedeve essere ricercata nella“scarsa voglia di accettare gli usi e le consuetudini italiane da parte degliafricani”. A onor del vero, c’è anche un 16% che ritiene che l’ostacolo all’integrazione sia dovuto al fatto che “gli italiani sono razzisti”. Ma vogliamo chiudere con un dato positivo? Per il 75% delle persone che hanno risposto alla survey diAmref,la cittadinanza italiana dovrebbe essere concessa automaticamente ai figli delle persone immigrateche sianonatiin Italia o che vi sianoarrivati entro i 12 annie che abbiano frequentato regolarmente le scuole nel nostro Paese per almeno 5 anni. Insomma, conservare una flebile speranza si può. E forse, se si vogliono cambiare le cose, come sempre, si deve.