Il fotovoltaico europeo è a rischio?

 

Il percorso verso ladecarbonizzazionee lariduzione delle emissioni inquinantisi presenta ancora ricco di insidie, soprattutto dal punto di vista economico. Se da un lato le fonti rinnovabili si candidano ad assumere un ruolo di spicco per soddisfare la domanda energetica di famiglie e imprese dell’Unione europea, con proposte diobblighi di pannelli solari su tutti gli edificie il temuto accordo sullecase green, il mercato della produzione sostenibile di energia elettrica non sembra tenere troppo in considerazione le imprese europee. Il leader assoluto, capace di sfiorare con un dito il monopolio, rimane infatti laCina, che nonostante le varie turbolenze macroeconomiche vissute negli ultimi mesi mantiene saldo in mano la fetta più grande, pari al70% della produzione di moduli fotovoltaicia livello globale, con una export del 55%in oltre 200 Paesi. Alla base di una presenza così dominante da parte della Repubblica Popolare Cinese c’è un enorme investimento dioltre 50 miliardi di dollaricon 300.000 posti di lavoro coinvolti in tutte le fasi della produzione dei pannelli fotovoltaici. In generale, tra manodopera e spese generali estremamente ridotte, icosti di produzionerisultanopiù bassi del 35%rispetto allo scenario europeo. Un vantaggio che si riverbera anche sul prezzo finale del prodotto e che assicura al mercato cinese il dominio assoluto dell’intera filiera green, dalle materie prime alla componentistica, fino ai pannelli fotovoltaici completi, con costanti aumenti della propria capacità produttiva. Il distacco è abissale con l’Europa, che – stando ai dati diSolarPower Europe- nel 2022 presentava una capacità manifatturiera pari al2% di quella mondiale, con una quota di moduli fotovoltaici di solo 9 gigawatt per nulla idonea a soddisfare la domanda annuale installazioni e a sopperire alla parte di mercato lasciata scoperta ci pensano proprio leimportazioni dalla Cinain aumento, mentre la produzione europea è lasciata al suo declino, con parecchie realtà imprenditoriali in crisi ealle soglie dell’insolvenza. Con queste premesse, non si fa fatica a comprendere perché a livello europeo venga nominata “laminaccia cinese”, utilizzando le parole Johan Lindahl, segretario generale dell’European Solar Manufacturing Council, cioè l’organizzazione che rappresenta le industrie manifatturiere del fotovoltaico europeo. Una minaccia a cui – secondo alcune indiscrezioni riportate suFinancial Times- Bruxelles sta cercando di porre un freno avviando un’indagine anti-dumpingnei confronti di Pechino. Si tratta di un’inchiesta finalizzata a scoprire presunte politiche commerciali scorrette (chiamate appuntodumping) che consistono nel vendere all’estero prodotti a un prezzo inferiore al loro costo di produzione, rinunciando a qualunque profitto o addirittura subendo delle perdite, pur assicurarsi più quote di clienti possibili. E una volta raggiunta una solida presenza su un mercato, aumentare gradualmente i prezzi per compensare le perdite. L’avvio di un’indagine di questo tipo (conclusa a buon fine) è il presupposto necessario per l’applicazione didazi doganalimirati proprio a limitare simili pratiche distorsive del mercato e proteggere gli interessi dei produttori, oltre che dei consumatori. Non rappresenterebbe un caso isolato, dato che proprio lo scorso settembre la presidente della Commissione europeaUrsula von der Leyenannunciava l’apertura di una «indagine anti-sovvenzioni nelsettore elettrico dei veicoliprovenienti dalla Cina» proprio per favorire la concorrenza ed evitare dannose corse al ribasso dei prezzi. Alzare i costi delle esportazioni potrebbe sicuramente limitare l’eccesso di offerta proveniente da Pechino, anche se fra i funzionari di Bruxelles si discute della possibilità di nuovi incentivi economici per i singoli Governi per aiutare le fabbriche in difficoltà. Fra tutte, l’azienda svizzeraMeyer Burger Technologystarebbe ponderando l’idea dichiudere una delle fabbriche più grandi d’Europasituata a Freiberg (Germania), lasciando a casa un organico di circa cinquecento lavoratori dopo neanche tre anni dall’apertura. Una scelta che si fonda sui bilanci perennemente in rosso dell’azienda, che chiede aiuti pubblici pari a450 milioni di franchi svizzeriper tamponare le perdite e salvaguardare i propri dipendenti. Sempre che l’impresa non decida prima di delocalizzare definitivamente negliStati Uniti, il cui governo, grazie all’Inflation Reduction Actvarato nell’agosto del 2022, ha messo sul piatto oltre 369 miliardi di dollari a disposizione delle aziende per investire in tecnologie e soluzioni climatiche sostenibili. Attualmente l’Unione europea non ha ancora delineato un piano definito per sostenere l’industria fotovoltaica interna e proteggerla dairibassi inafferrabilidella Cina. Ma servirà prendere una decisione in fretta e svegliarsi dal torpore pur di impedire che le realtà imprenditoriali più promettenti e tecnologicamente avanzate – necessarie per la agognata transizione energetica – si spostino in massa verso scenari economici extraeuropei più attraenti, o che addirittura rimangano schiacciate dal peso di unaconcorrenza spietata.