Ferirsi con il rasoio di Occam

 

Sarà capitato anche a voi di imbattervi in questo assioma che – come tutti i ragionamenti ineccepibili – strappa applausi e genera consenso: “In Italia ci sono troppe donne disoccupate ma le aziende non trovano lavoratori con determinati profili. Dobbiamo formare le donne su queste competenze!” Se è così semplice, perché non lo facciamo? Per rispondere devo fare due passi indietro, e ragionare sulladisoccupazione femminilee sulmismatch. Rispetto all’occupazione, è vero chequellafemminile (53%) è molto più bassa di quella maschile (71%).Per l’Istat lavorano 13 milioni e mezzo di uomini, contro 10 milioni di donne. Questa differenza di genere scompare rispetto ai disoccupati (947.000 uomini contro 946.000 donne),non ci sono più disoccupate donne di quanti non siano gli uomini. Ritroviamo una profondadifferenzanella terza categoria: gliinattivi(4 milioni e mezzo di uomini e quasi 8 milioni di donne). Gli inattivi sono stimati per differenza. Se non lavori e non cerchi lavoro “attivamente” (se non hai fatto, negli ultimi 28 giorni, delle azioni per la ricerca dellavoroe non sei disponibile a lavorare o a metterti in proprio entro 14 giorni) allora sei inattivo. Negli inattivi rientrano: studenti (circa 4 milioni), casalinghe (4,5 milioni secondo ilRandstad Research Institute), benestanti, inabili al lavoro e “scoraggiati” che hanno smesso o mai iniziato a cercare un lavoro. Mismatchè la mancata corrispondenza tra domanda delle imprese e offerta dei lavoratori.In Italia,i posti vacanti sono circa il 2%e non siamo nemmeno messi così male rispetto ai Paesi europei: in Germania sono il 3,2%, nella Repubblica Ceca il 5%, in Spagna lo 0,7%, a fronte di una media UE del 2,3%. Il 2% corrisponde acirca mezzo milione di posti vacanti. Siamo bombardati da previsioni occupazionali e roboanti titoli di giornali che ci dicono che servono 2, 3, 4 milioni di nuovi occupati negli anni a venire ma poi, quando passano gli anni, il numero dei posti vacanti resta sostanzialmente identico. Da una parte abbiamodue milioni di disoccupati e, dall’altra, mezzo milione di posti di lavoro, ma potrebbero essere geograficamente lontani gli uni dagli altri o a una incolmabile distanza per aspettative, competenze o aspirazioni di vita. A fare la differenza sono senz’altro le inattive, per le quali il problema di cercare un lavoro (forse) si pone, ma non lo cercano.Donne (in parte) spaventate dal mercato del lavoro, che riflettono sulla convenienza di entrarvi quando ragionano sui costi di spostamenti, asili nido, babysitter e sulla convenienza del bilanciamento tra attività di cura e lavoro. È impensabile proporre a una casalinga da 10-15 anni di iniziare un corso di Cybersecurity. Forse, Riccarda Zezza non sarà d’accordo, la maternità è un Master in Business Administration e fare la casalinga un corso accelerato di management, ma il problema è chequeste donne hanno bisogno di riacquistare- spesso -fiduciain sé stesse, ma soprattuttonel mondo del lavoro.Per questo è necessario trasformare le aziende in comunità inclusive che rimuovano ostacoli e paure. In una frase: di cui ci si possa fidare. Rendere possibile la conciliazione delle attività di cura e “vantaggioso” il lavoro in sé, senza affidarci necessariamente alla formazione, che non può essere la panacea a effetto ultrarapido per qualsiasi problema. Perché, come per fare un bambino ci vogliono 9 mesi, per fare un ingegnere informatico ci vogliono 3 o 5 anni.La formazione per generare profili “plug & play” è una pura illusione.Lavorare sugli inattivi, maschi o femmine che siano, se funzionasse produrrebbe anche un incremento dei disoccupati. Scelta che può spaventare per il suo rischio “mediatico” o di consenso, ma è l’unica strada per togliere dall’inattività milioni di persone. Non si passa quasi mai da inattivi a occupati, ma tramite la transizione “disoccupati” all’attiva ricerca di un lavoro. Dobbiamopromuovere la mobilità sociale dentro le aziende, formare le persone per prossimità di competenza, incoraggiare la mobilità verticaleper attrarre un inattivo non sulle posizioni emergenti (quelle più difficili da reperire) ma su quelle che possono essere immediatamente percepite come accessibili, che servono per iniziare o ricominciare. C’è bisogno di politiche a sostegno della progressione di carriera e dello sviluppo professionale, e di unlavoro “a misura di donna e di uomo”, dei loro sogni, dei loro progetti e ambizioni di vita. L’errore logico è ragionare come se esistessero solo due vasche: chi non lavora e i profili che servono alle aziende. Le vasche, invece, sono tante e diverse. Una – la più importante – è quella di chi già lavora. Abbiamo già fatto in passato lo stesso errore, quando abbiamo dato soldi a pioggia a disoccupati che volevano aprire attività imprenditoriali. Molte esistono ancora, ma tantissime hanno chiuso. Mentre – sappiamo bene – chedovremmo aiutare chi già lavora, ha esperienza e una buona idea, a mettersi in proprio a fare spin-off o start-up, anche se questo spaventa molto le aziende, per la paura di perdere talenti e generare competitor, ma produrrebbe migliori risultati occupazionali diretti e – soprattutto – indiretti. Sono tuttesoluzioni complesse in risposta a un problema che lo è altrettanto, da attuare in tempi lunghi e faticosi, con buona pace di Occam e del suo rasoio, che però bisogna sempre maneggiare con cura, altrimenti si rischia di tagliarsi. Ma, se lo preferite, continuate a illudervi che possiamo formare delle casalinghe per fare delle Data Strategist in 48 ore e che siamo solo dei pigri sciocchi che non vogliono farlo.

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