Benin: c’era una volta la “Via del cotone”

 

Guardando i vari post sui social nel periodo natalizio, mi è capitato di vederne uno relativo alministro dell’agricoltura del Benin,che si ècommossomentre il Presidente del suo Stato dichiarava che il Paese stesso era diventato ilprimo produttore di cotone dell’Africaoccidentale. Il post esalta l’umiltà della persona e la sua dedizione, non ha riferimenti temporali, e si limita a chiedere agli utenti di segnalare altri personaggi pubblici del continente che possano anche loro degli esempi. Il contenuto ha generato un fiume di commenti tra acclamazioni, commiserazioni, esecrazioni del cotone come coltivazione inquinante, accuse agli occidentali per lo sfruttamento delle risorse africane, rivalità tra abitanti di Nazioni confinanti, salvo un grande assente (mi sia dato il beneficio di errore, perché al momento i commenti sono più di 1.400):la fotografia è del 2019,quando venne raggiunto il risultato per la prima volta, anche se poi il primato si è ripetuto altre volte e, come sembrerebbe, anche quest’anno. Bisogna notare che nel post la domanda era:“Puoi indicare altri leader che mostrino questo tipo di dedizione?”Nei commenti si parla di tutto, manessuno o quasi risponde alla domanda. Ma si sa: nei social, come un tempo nei bar dello sport, il principio che vige è quello dell’aforisma del dito e la luna.Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito e non la luna. La lettura del post è stata comunque utile per richiamare l’attenzione sul Benin e approfondire le sue dinamiche di crescita. Nel tempo trascorso dal momento delle lacrime del ministro (il suo nome è Cossi Gaston Dossouhoui) a oggi, il Paese non solomantiene il primato della produzione, ma sta anche cercando di creare un’industria della trasformazione: uno dei talloni di Achille dell’Africa, dove i materiali si esportano grezzi e si importano trasformati, lasciando che la crescita del valore arricchisca le Nazioni di trasformazione con bilance dei pagamenti che sono quasi sempre avverse ai Paesi produttori. Uno sforzo accompagnato dalla Cina che sta sostenendo il Paese nell’apprendimento delle tecnologie necessarie ad aumentare la produzione attraverso sessioni di formazione in loco. A ciò si aggiunge il fatto che ilBenin si affaccia sull’oceanoAtlanticoe ciò agevola la possibilità diesportare prodotti grezzi e lavoratiattraverso il trasporto marittimo. Sembra essere una bella storia anche se sappiamo cheil cotone consuma moltissima acquae può avere impatti devastanti sull’ambiente a causa dei pesticidi usati. Una storia bella anche perché se un tempo tanti figli dell’Africa vennero costretti in schiavitù è stato proprio a causa delle grandi piantagioni di caffè, tabacco, zucchero e cotone di quel che si chiamava allora il Nuovo Mondo; e anche a causa di molti film di Hollywood che, spesso, associo all’immagine di un campo di cotone le mani di uno schiavo intento a raccogliere i fiori bianchi. Pensare allora che ai nostri giorniil cotone possa aiutare l’economia di uno dei Paesi meno sviluppati al mondo(il Benin è nella lista dei 46 Stati meno sviluppati stilata dall’Onu nel 2021) mi appare di conforto. Una strada non facile, perché le economie basate sulle monoculture concentrano i rischi ciclici e acuiscono la dipendenza da fattori esogeni, quali l’arrivo di parassiti o insetti che distruggono i raccolti,così come è successo in Mali che ha perso il primato nella produzione del cotone, e come è successo nel 19° secolo nel Nord d’Italia e prima ancora in Francia nella produzione della seta, che accusò una grave battuta d’arresto a seguito della propagazione della pebrina, la malattia che uccideva i bachi da seta. E come spesso accade inagricoltura, alle avversità naturali si aggiungono quelle causate dallepolitiche economicheche, in un mondo globalizzato, toccano le persone anche quando sono assunte dall’altra parte dell’oceano. Mi riferisco alle politiche di sussidio che gli Stati Uniti (e non solo) adottano per agevolare le produzioni nazionali che spesso conducono a cadute dei prezzi rivelatisi fatali per i Paesi più poveri (e il cotone è uno dei settori che maggiormente beneficiano di questi sussidi). A prescindere da queste considerazioni,con il cotone il Benin sta tracciando una strada per uno sviluppo duraturoda indicare agli altri Stati africani, dove la produzione delle materie prime, siano esse raccolti o minerali, deve essere accompagnata dalla trasformazione in loco per assicurare impatti ampi e positivi. La chiamerei la“Via del cotone”pensandola quale alternativa ad altra via che aveva sedotto anche noi italiani Per quel che concerne il Benin, molte sono le incognite che possono alterare il suo sviluppo, da quelle sull’effettiva democrazia interna (che molti considerano non raggiunta) alle criticità che i golpe recentemente avvenuti nei paesi confinanti (Niger e Burkina Faso) o poco lontani (Mali) rappresentano, insieme alla persistente minaccia del terrorismo di natura islamica che incombe su tutto il Sahel e i fattori ambientali quali il cambiamento del clima. Altri Stati africani presentano analoghe problematiche. Rimane il fatto che,per crescere, i Paesi africani hanno più alternative: non solo la speranza nell’aiuto straniero che può essere genuino, paritetico o no, ma anche politiche di sviluppo di industrie locali per crescere o, almeno, sperare concretamente di farlo. Non solo le varie vie della seta dei commerci con potenze egemoniche, ma anche la“Via delcotone”.