Milano: oltre metà dei cittadini potrebbe lasciare la metropoli

 

“Le città dovrebbero essere costruite in campagna: l’aria lì è più salubre”, diceva nell’Ottocento lo scrittore, giornalista e umorista francese Jean Louis Auguste Commerson. L’idea di abbandonare la città per raggiungere un posto meno caotico e più a contatto con la natura ha sfiorato molti dei residenti delle grandi metropoli, almeno una volta nella vita. E sembra che stia stuzzicando soprattutto i milanesi: lo dimostrano i risultati dell’indagine del think tankThe European House – Ambrosettisulla percezione delle aree ruralidelle province di Pavia, Mantova e Cremona da parte dei residenti dell’area metropolitana di Milano. Si tratta di aree frequentate perlopiù nel fine settimana per gite fuori porta e conosciute per le eccellenze locali, dall’offerta enogastronomica al paesaggio. L’indagine, realizzatasu un campione di 507 cittadini e cittadine nel territorio della Città Metropolitana di Milano, voleva comprendere bisogni e percezioni di chi vive aMilanoo nei comuni limitrofi rispetto alle aree rurali lombarde diLomellina, Oltrepò Pavese e Oltrepò Mantovano/Oglio Po, valutate positivamente ma sconosciute al 18% del campione. Questi territori, che sorgono nel sud-ovest e nel sud-est della Lombardia, contano un totale di poco più di 223.000 abitanti (2,2% della regione) e 110 comuni. I risultati sono il punto di partenza del progetto finanziato dalla Regione LombardiaDimore e Borghi, che ha l’obiettivo di riprogettare i tre territori come luoghi in cui stabilirsi e di intercettare le esigenze dei cittadini milanesi disposti a trasferirsi in quelle zone. Le aree rurali lombarde stanno attraversando quello che il think tank definisce“un complesso periodo di cambiamento, con l’emergere dialcune criticità strutturali”: una progressiva contrazione demografica, per esempio, una popolazione che conta 1 abitante su 10 sotto i 15 anni, un calo delle imprese e 1 residente su 3 che fa il pendolare. Per affrontare queste criticità,The European House – Ambrosettiha indagato le potenzialità associate alla valorizzazione del concetto di qualità della vita. Secondo la ricerca,più della metà del campione intervistato nel mese di settembre 2023 si dice disponibile, nel prossimo futuro,a lasciare la metropoli e trasferirsi in aree “di prossimità”come le tre province prese in considerazione. Il 51,7% si dice pronto a valutare la possibilità di farlo, il 15% risponde di sì, il 28% è, invece, contrario. Insomma, trasferirsi? Sì, ma solo a determinate condizioni.Per il 63,1%, quel che definisce la qualità di vita ed è consideratauna priorità in un’area a vocazione rurale è l’offerta dei servizi di base- come presidi socio-sanitari, farmacie e servizi di assistenza alla persona -, insieme ad altri fattori come la presenza di centri commerciali (39,8%) e di efficaci reti di connettività e collegamento verso l’“esterno”, comei trasporti pubblicie la banda larga (36,5%). Per 7 intervistati su 10un altro fattore rilevante èla garanzia di un ambiente “sicuro”,per il 43,8%lo è anchela disponibilità di spazi di aggregazione, ma anche l’offerta culturale (43,6%),unita allapossibilità di avere una situazione lavorativa soddisfacente e “agile”, che si traduce invicinanza del luogo di lavoro, salario e prospettive di carriera, esmart working(lo è per la metà del campione). Quel che spingerebbe lapopolazione maschilea spostarsi nelle tre aree esaminate èil costo delle abitazioni; ilcampione femminile, invece, ritiene più importante avere nelle vicinanzeservizi alla personacome nidi, scuole e ospedali. La qualità dell’ambiente è un fattore determinante per entrambi i generi. «La possibilità di(ri)programmare parte della propria vita in una zona ruraleè manifestata soprattutto da chi è nel pieno della propria attività lavorativa (60,8% nella fascia 45-54 anni) o prossimo alla pensione (50,6% nella fascia 55-64 anni)», spiega Pio Parma, Senior Consultant diThe European House – Ambrosetti. È quanto accaduto alla Dottoressa Paola Calonghi, prima psicoterapeuta a Milano e oggi responsabile diunalbergo diffuso- il primo in Lombardia – a Golferenzo, una piccola realtà a rischio abbandono dell’Oltrepò Pavese: «Milano mi ha dato tanto, ma a un certo punto non aveva più niente da offrirmi. Ho capito che è così difficile “disintossicarsi” perché quando stai in città,la città ti crea dei bisogni». L’albergo diffuso che gestisce «è un modo sostenibile di vivere il turismo, perché non prevede la costruzione di nuove residenze. E, soprattutto, fa tornare e rimanere i giovani». Secondo Andrea Membretti, professore di Sociologia esperto in migrazione da e verso i territori montani e rurali,si dovrebbe puntare di più su «politiche per l’abitare diffuso, piuttosto che insistere sul turismo. O c’è il rischio che determinati luoghi possano diventare esclusivi. Il tema è quello di ripensare la distribuzione delle persone sul territorio, ma la ricerca ci dice che c’è interesse verso una mobilità residenziale a mio parere intermittente, non solo per gli smartworker».