Lo sportwashing saudita e l’illusione delle riforme sui diritti umani

 

Negli ultimi giorni ha fatto molto discutereun’intervista rilasciata a The Athletic da Jordan Henderson, ex capitano del Liverpool euno dei tanti giocatori a essersi trasferiti in Arabia Sauditain questa sessione estiva di calciomercato. Nella conversazione con i giornalisti David Ornstein e Adam Crafton, Henderson, che ha sempre mostrato pubblicamente il suo supporto alla comunitàLgbtq+, ha detto di essere dispiaciuto se qualcuno si è sentito tradito o colpito negativamente dalla sua decisione di giocare in unPaese poco rispettoso dei diritti umani e civili, ma che i suoi valori e le sue idee non sono cambiate. Ha poi aggiunto che pensa sia una cosa positiva che una persona con questi valori sia oggi inArabia Saudita. «Possiamo tutti nascondere la testa sotto la sabbia e criticare da lontano diversi Stati e diverse culture, ma questo non farà accadere niente, non cambierà niente», ha detto il centrocampista inglese, che ha anche specificato chenel suo contratto non è prevista alcuna forma di pubblicità al governo sauditatramite post sui social media, cosa che sembrerebbe invece stata inserita a esempio nel contratto di Neymar. L’intervista è proseguita con la sua dichiarazione difiducia nel fatto che la situazione relativa ai diritti umani nel Paese possa a poco a poco migliorare.Il tal senso il giocatore ha citato l’esempio delQatar, sostenendo che lasituazione dei lavoratorivista da lui durante gli ultimi Mondiali fosse decisamente più positiva di quanto denunciato in passato da associazioni comeAmnesty International. Le cosiddette riforme annunciate dal Qatar sono state tuttavia misure di facciata, come comunicato dalla stessaAmnesty Internationale daHuman Rights Watch, oltre che daun’inchiestache ha rivelato comela Stark Security Services, un’azienda che ha stretti legami con la famiglia reale e che forniva gli stewards per le partite,non abbia mai pagato i propri dipendentie sia stata accusata di finanziare il gruppo di Al Qaeda. Secondo Valerio Moggia, giornalista che si occupa di temi sportivi connessi alla politica,la posizione di Henderson mostra aspetti abbastanza ingenui. Losportwashingè proprio questo. Come è possibile cadere nella “trappola” di uno dei tanti Stati che sfruttano il potere attrattivo del calcio in cambio di enormi quantità di denaro? Quale credibilità possono avere le parole sulla situazione dell’Arabia Saudita di un atleta milionario, privilegiato e inserito in un ambiente dove tutto è predisposto per far sì che Riyad non sembri così rigida? Occorre ancora una volta specificare cheil problemanonriguardasolamente l’atteggiamento individuale di Henderson, che potremmo considerare caratterizzato da un misto tra ingenuità, ipocrisia e un tentativo di autoconvincimento, ma riguarda anche e soprattuttotutte le organizzazioni sportive(e non solo)colluse e ormai dipendenti dai soldi di questi stati autoritari. Un’associazione ditifosi del Newcastle, squadra divenuta di proprietà del Fondo Pubblico di Investimento dell’Arabia Saudita (PIF),ha invitato il resto della tifoseria a protestare davanti allo stadio in vista dell’amichevole tra Arabia Saudita e Corea del Sudche si giocherà al St. James Park. Il loro messaggio è: “non lasciamo che la dittatura saudita usi la nostra città per divergere l’attenzione dai loro crimini.” Jordan Henderson avrà il privilegio di continuare a poter esprimersi sulle minoranze Lgbtq+, non il diritto. Sarebbe un diritto se questa possibilità fosse stata concessa anche a persone come Mohammed al-Ghamdi, un insegnante pensionatocondannato a morte per dei tweet critici verso il regime,relativi alla corruzione e le violazioni dei diritti umani, pubblicati su un account anonimo con 9 followers,come detto dal fratelloche vive nel Regno Unito.