Guai in vista per il petrodollaro
L’economia moderna, che si fonda sullibero mercatoe sulla tuteladella concorrenza, ha accettato l’esistenza di una sorta dicartello di produttoriche attualmente domina il mercato petrolifero globale. L’Opecinfatti è l’organizzazione che riunisce tutti i principali Paesi esportatori di petrolio a livello mondiale (Algeria, Angola, Congo, Guinea Equatoriale, Gabon, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Venezuela) equiparabili acirca il44%della produzione globale di petrolioe che nella sostanza cooperano pergarantire la stabilità dei prezzicercando di armonizzare le politiche sul petrolio fra i vari Paesi membri. Sono passati ormai 50 anni da quando Stati Uniti e Arabia Saudita strinsero un accordo di ferro percommerciare ogni barile di petrolio in dollaridellaFederal Reserve(la Banca centrale americana) in cambio di armi e protezione militare dei giacimenti petroliferi sauditi. Non a caso, dal 1973 in poi le entrate dei Paesi Opec provenienti dalle esportazioni di petrolio, gas o carbone hanno preso il nome dipetrodollari, rendendo di fatto il dollaro come la valuta mondiale preminente e più utilizzata per la maggior parte delle transazioni internazionali. Tuttavia, agganciare così saldamente il mercato petrolifero alla valuta americana significa rafforzare la politica estera degli Stati Uniti e quindi il suo potere sullo scacchiere internazionale. Uno scenario che molti Paesi storicamente contrapposti agli Usa come Cina e Russia hanno sempre mal tollerato, e che sin dal 2014 (anno dell’annessione al territorio russo della Crimea) hanno tentato di sovvertire ampliando sempre di più la loro cooperazione economica. Nonostante vari tentativi, il processo dide-dollarizzazionefino a oggi ha visto principalmente insuccessi, non riuscendo a spodestare la banconota verde dal trono del petrolioin favore dello yuan cinese. Tuttavia, non sembra così remota la possibilità che il petrodollaro possa subire contraccolpi piuttosto significativi. L’ultimo vertice deiBrics– acronimo che racchiude paesi in via di sviluppo quali Brasile, Russia, India e Cina – svoltosi a Johannesburg ha sancito l’inizio di una vera e propria sfida geopolitica contro ilFondo Monetario Internazionale, laBanca mondialee tutti gli Stati che compongono il G7, primi fra tutti proprio gli Stati Uniti. Dal 2024 altri 6 Paesi emergenti entreranno a far parte dell’organizzazione – con altre decine di Stati in fila per presentare la loro domanda di annessione – dando vita a uncolosso economico pari al 36% del Pil mondialee quasi la metà della popolazione del Pianeta. Si tratterà di un soggetto dotato perfino di una propria istituzione finanziaria – laNuova Banca di SviluppooNnd Brics– fondata nel 2014 per finanziare le economie emergenti con valute diverse dal dollaro. L’obiettivo è quello di scalzare la preminenza degli Stati Uniti, ancora troppo lontano per temerlo ma sempre più ardentemente progettato dalle economie non allineate alla politica estera americane, che sognano unpetroyuanlegato alle risorse energetiche e capace di frammentare il sistema monetario internazionale, rendendolo multipolare. Lo scorso febbraio la banca centrale dell’Iraq – che risulta il secondo produttore di petrolio dell’Opeccon 3,3 milioni di barili esportati ogni giorno– ha autorizzato l’utilizzo dellavaluta cineseper il pagamento delle esportazioni vista «la carenza di dollari nel mercato interno». Una scelta abbracciata successivamente anche da altri Paesi del Golfo e membri Opec come Angola e Arabia Saudita (formalmente ancora forte alleata degli Stati Uniti) che progressivamente hanno stretto accordi sempre più forte con la Cina vendendo il loro petrolio in cambio di yuan e incrementando i loro investimenti in territorio cinese. Tutto ciò fa il paio con unsistematico calo di dollari nelle riserveufficiali delle banche centrali, passato dal 71% del 2009 al 59% del 2021. Un declino che nell’ultimo periodo ha subito una forte accelerazione e che fa traballare il suo prestigio nei mercati internazionali pur comunque rimanendo attualmentela moneta più liquida, ossia facilmente e rapidamente utilizzabile per pagare servizi, merci e quindi anche materie prime. Sono ancora molti, infatti, i Paesi con una economia ancorata al dollaro e quindi scettiche nell’utilizzo di yuan nei loro scambi, anche se nulla ci vieta di immaginare che un progressivo ampliamento della valuta cinese non possa anche incrementarne la popolarità nelle casse delle banche centrali di gran parte del Pianeta.