Oppressione: sostantivo femminile; l’atto, il fatto di opprimere, (…) il senso di peso, didisagio, di molestia, d’angoscia che ne derivano. È questa ladefinizione che l’enciclopedia Treccanionline dà della parola “oppressione”. La scrittrice e femminista Bell Hooks, invece,la definiva“assenza di scelte”. “Semplificando, l’oppressione si concretizza in primo luogocostruendo e affermando differenze ‘date dalla natura’, in secondo luogo collocando tali differenze in unagerarchiache definisce il valore della vita, garantisce l’accesso aidirittie influenza i livelli di empatia, in terzo luogo attraverso la potente narrazione secondo cuispetterebbe a noi guadagnarci un posto in tale gerarchia”. Così scriveEmilia Roig, fondatrice e direttrice delCenter for Intersectional Justicedi Berlino, inWe matter. La fine delle oppressioni(Il Margine,17,60 euro, 368 pagine): libro a metà tra un’autobiografia e unsaggio intersezionaleche racconta il legame trarazzismo,patriarcatoeclassismo. Perché sì: le oppressioni sono tante, tutte capaci di insinuarsi nella quotidianità delle persone e rafforzarsi a vicenda. È tutto collegato. Se ci pensi, infatti, l’uomo ricco è privilegiato rispetto all’uomomeno ricco, mentre tutti gli uomini sono privilegiatirispetto alle donnein quanto maschi; le donne bianche, invece, sono privilegiate rispetto alle lorocompagne nere; le persone eterosessuali cisgender sono privilegiaterispetto alla comunità Lgbtq+.In generale, se sei un uomo benestante, bianco, cis etero: hai vinto. Ma “Ilprivilegionon dice nulla sulle nostre capacità e sui nostri talenti intrinseci – scrive Roig – Molte persone di successo (…) vengono trasportate verso l’alto daascensori invisibili. I privilegi possono anche essere paragonati ai jolly nei giochi di carte. Tutt* riceviamo le stesse carte, ma alcun* ricevono anche un numero illimitato di jolly fin dall’inizio. (…) I jolly da soli non possono garantire la vittoria, maaiutano enormemente”. Si creano cosìgerarchie, costruite però dagli esseri umani: queste “classifiche”, infatti, non sono naturali, ma realizzate da chi ha il privilegio e la possibilità (come la non possibilità) diopprimeregli altri. Il problema, spiega Roig, è che più siamo privilegiati, più èdifficile riconoscere, accettare, mettere in discussionele disuguaglianze ma, “Se avete in mano questo libro, probabilmente non accettate completamente la rappresentazione unidimensionale della realtà o siete per lo meno disponibili a metterla in discussione. L’oppressione patriarcale Patriarcato: sostantivo maschile; in antropologia, tipo di sistema sociale in cui vige il “diritto paterno”,ossia il controllo esclusivo dell’autorità domestica, pubblica e politica da parte deimaschipiù anziani del gruppo.Questa è la definizione di Treccani online. Per Roig “Il patriarcato pretende chele donne si facciano più piccole possibili. (…) E devono rimanere piccole,in modo che gli uomini non si sentano minacciati”.Quindi, devono vestirsi in un certo modo, fare determinati lavori, avere marito, figli e occuparsi della casa. Insomma, non devono essere “troppo”. Si crede spesso, poi, che il patriarcato sia una lottafemmine vs maschimentre, invece, questa forma di oppressione può essere vinta solo se si uniscono le forze. Certo è che sono le donne a impiegare più energie in questa battaglia, perché sono loro a esserne maggiormente colpite e risentirne nella propria relazione. Secondo lo studio del 2018 condotto dall’istituto di sondaggi tedescoInnofacte riportato inWe Matter,gli uomini sembrano essere più felici all’interno della relazione e chiedono il divorzio nel 40% dei casi, contro il 52% delle donne (l’8% è consensuale). È anche vero, però, che l’aiuto alle donne deve venire in primis dalle lorocompagne. Quante volte hai sentito la frase“Le donne sono le peggiori nemiche delle donne”o simili? Anche loro, infatti, in alcuni casi, hanno un ruolo attivo nelpatriarcato, quando giudicano le altre “troppo…”: grasse, brutte, magre, basse, alte, sicure di sé, maschili, ricche, povere, sexy, femminili… Ilpatriarcato, infatti,non risparmia nessuna e nessuno: anche gli uomini ne soffrono. Ai bambini viene insegnato a non piangere, a non esprimere le proprie emozioni, a essere forti e, quando più grandi, ad avere un lavoro e portare i soldi a casa per prendersi cura della famiglia. Ma solo economicamente perché a casa, c’è la mamma che fa tutto. Gratuitamente. Parliamo dilavoro di cura: ovvero l’attività non retribuita di donne e madri dedicata alle “faccende domestiche”. “Il lavoro di cura viene svalutato e reso invisibilenella società e viene svolto in gran parte da miliardi di donne non retribuite (…) rafforza anche le disuguaglianze sociali tra le donne in base a etnia, classe, nazionalità e status migratorio”. Infatti, “Affinché le donne che svolgono lavori ben retribuiti possano aumentare le ore di lavoro pagato – scrive Roig – o tornare a lavoro più rapidamente dopo la nascita dei figli,altre donne devono farsi carico del loro lavoro riproduttivo”. Un altro stigma che aleggia attorno all’ideale di “donna perfetta” è che, per essere davvero così, non può essere unasex worker. “Essere definite prostitute è percepito come il peggior insulto possibile. Lastigmatizzazione de* lavorator* del sessoperpetua lamisoginiain modo sottile ma insistente (…) Questi commenti sono una forma di violenza sessualizzata che molte donne subiscono, loslut shaming”. Ma, come spiega Roig nel suo libro, anche quella del sesso è un’industria dove si vende e si compra un servizio che non è rappresentato, però, dal corpo della donna. “Alla fine della transazione la clientela non possiede il corpo de* lavorator*”. Questo vuol dire, secondo la scrittrice, chele lavoratrici del sesso non sono una merce;che il loro corpo non è un bene acquistabile e cedibile ma che, piuttosto, lesex workersvi hanno sempre il controllo. “Il lavoro sessuale può anche essere una sorta diempowerment, un modo per riappropriarsi di sé”. Inoltre, il pregiudizio contro le sex workers non fa che alimentare lagiustificazione di abusi e violenzecontro di loro, insiti in commenti patriarcali tipo “Se l’è cercata”. L’oppressione razziale “Quando sentiamo al telegiornale che una donna è stata violentata o che una banca è stata rapinata, la prima cosa che ci chiediamo con ansia è:‘è nero’?” Non è un mistero che, in tutto il mondo, le minoranze siano discriminate in molti ambiti della vita quotidiana. Secondo lo studio condotto dall’Istituto di ricerca criminologica della Bassa Sassonia e riportato da Roig, lepersoneBipocsonopunite con maggior durezza:l’esperimento condotto dal centro di ricerca, infatti, ha dimostrato come ipotetici imputati con un nome straniero venissero puniti più severamente rispetto agli altri. Negli Usa, si legge inWe Matter, i ricercatori diStanfordhanno dimostrato come ibambini nerivengano spesso considerati come adulti e che, quindi, meritinopunizioni severe. “Negli Stati Uniti, i/le giovani ner* e non bianch* sono trattati più duramente de* loro coetane* bianch* (…) Gli/le student* hanno maggiori probabilità di essere sospes*, di essere segnalat* dalle scuole alle forze dell’ordine, di essere arrestat*, di essere processat* da un tribunale per adulti e, in generale, di ricevere sentenze più severe”. Come si opprimono le oppressioni? “Un primo passo per cambiare èsmettere di ignorareil dolore che l’oppressione provoca”. E con questa frase, potremmo anche chiuderla qui. Ma la realtà è più complessa, proprio perché spesso alcune persone fanno fatica ad accettare che sì, sono gruppi privilegiati. La chiave, infatti, èmettere in discussione la realtà a cui siamo abituati,ciò che noi chiamiamo “normalità”. La vita, infatti, scrive Roig, “è multiforme. A seconda dell’angolazione da cui la guardiamo,la realtà assume una forma diversa. Di solito adottiamo sempre la stessa prospettiva da cui osserviamo la normalità. Questo libro è un invito ad aprire la porta all’eterogeneità della nostra esistenza”.