Decarbonizzare e decolonizzare alla Biennale di Architettura

 

Decarbonizzazioneedecolonizzazionesono i temi intorno ai quali si sviluppa la18° Mostra Internazionale di ArchitetturadeLa Biennale di Venezia,inaugurata quest’anno, come per uno scherzo del destino, durante gli stessi giorni in cui si è verificata la drammaticainondazione dell’Emilia-Romagna. Mai argomenti furono più calzanti dell’attualità: la natura ha definitivamente dichiarato all’Occidente che non può più demandare alle generazioni future laquestione climatica e ambientale. È un problema che, oltre i politici, anche gliarchitettie gliurbanistidevono non solo affrontare, ma dimostrare di saperaffrontare. Da qui il titoloThe Laboratory of the Future, scelto dalla curatrice della mostraLesley Lokko, architetta, docente e scrittrice, classe 1964, metà scozzese e metà ghanese, che ha invitato gli 89 partecipanti a interrogarsi riguardo il concetto di “cambiamento” come termometro del nostro tempo. «Noi architetti – ha commentato – abbiamo un’occasione unica perproporre idee ambiziose e creativeche ci aiutino a immaginare un più equo e ottimistico futuro in comune» e per farlo ha coinvolto nella riflessione anche diversevoci africane(oltre la metà delle partecipanti), storicamente tenute ai margini dall’Occidente: «Per la prima volta, i riflettori sono puntati sull’Africae sulla sua diaspora, su quella cultura fluida e intrecciata di persone di origine africana che oggi abbraccia il mondo». Protagoniste dell’Arsenale e delPadiglione Centrale dei Giardinisono lepratiche africane di contrasto alla siccità, al cambiamento climatico, di bonifica del territorio, ma anche le indagini riguardo il rapporto tra memoria, performance e architettura. Così come i contributi sull’architettura come confine e il suo superamento, sugli spazi liminali e sul concetto di soglia sono le testimonianze di uncontinente che ha già vissuto le criticità che oggi riguardano il mondo più sviluppato. Anche le64 Nazioni partecipanti,distribuite tra Giardini, Arsenale e centro storico di Venezia, si sono confrontate con i temi della mostra, riflettendo sulle conseguenze dello stile di vita capitalista, “demappando” i luoghi dai modelli coloniali,interrogandosi su come ri-sincronizzarsi con la naturaper evitare, per esempio, inondazioni e mareggiate. IPaesi Bassipropongono di superare una concezione dell’architettura che si basa sull’estrazionee sullosfruttamento;PoloniaeIsraeleindagano sull’influenza dei dati e delleinfrastrutture informatiche sull’urbanistica; laSpagnaanalizza la produzione delciboattraverso le architetture che “nutrono” il mondo; ilCanadaelabora un manifesto contro l’alienazione residenzialeper ricostruire legami con la terra e la comunità; gliStati Unitifannomea culpaper l’abuso di plastica; ilGiapponesi chiede se l’architettura possa essere ancora oggi intesa come creatura vivente e“luogo d’amare”; Svizzera, AustriaeGermaniamettonoin discussione la Biennalestessa, destrutturandola. LaSanta Sede(presente alla Biennale per la seconda volta) parte dalle enciclicheLaudato si’eFratelli tuttidi Papa Francesco per invitare tutti a “Prendersi cura del Pianeta come ci prendiamo cura di noi stessi”, mentre l’Ucrainafa i conti con lo stato diguerrain cui si trova da oltre un anno, raccontando quali sono (e se ci sono) lepossibilità di azione per gli architetti in una situazione di conflitto. Credit: La Biennale di Venezia Credit: La Biennale di Venezia Padiglione CinaCredit: La Biennale di Venezia Credit: La Biennale di Venezia Padiglione SvizzeraCredit: La Biennale di Venezia L’Italiaaffida il proprio padiglione alla cura delcollettivoFosbury Architectureche ha sviluppato 9 progetti in altrettanti siti sparsi per il Paese, rappresentativi dicondizioni di fragilità o trasformazione del territorio,sfide “impossibili” se affrontate a livello globale ma in grado di produrre riscontri immediati e tangibili nei contesti locali (dalla rigenerazione delle periferie nel quartiere Librino di Catania, alla coesistenza multiculturale a Trieste, al superamento del divario digitale a Belmonte Calabro). I più concreti sono gli architetti cinesi che mostrano come, negli ultimi 40 anni, abbiano avviato una vasta gamma di esperimenti di rinnovamento urbano e rurale, esplorando la vivibilità in ambienti ad alta densità. Secondo la curatrice «Una mostra di architettura è allo stesso tempo un momento e un processo»che può «arricchire, cambiare o rinarrare una storia»; eThe Laboratory of the Futurerisponde a questa idea attraverso le proposte dei partecipanti che vengono ridefiniti “practitioners” e non più solo “architetti”, “urbanisti”, “designer”, “ingegneri” o “accademici” perché, per affrontare la complessità del mondo postcoloniale, anche la figura dell’architettonon può più limitarsi alla sua vecchia concezione. Ma come hanno esposto le loro pratiche alla Biennale questi nuovi “practitioners”? Come hanno tradotto in forma architettonica la storia e le identità espropriate? Come hanno mostrato il farearchitetturanei contesti di scarsità, di clima estremo e di vulnerabilità economica? Attraverso un articolato lavoro dirappresentazionee didocumentazione, con film narrativi, con esposizioni e linguaggi artistici, con performance e dibattiti su identità e memoria, superando la dimensione tridimensionale dell’architettura.Non è nelle infrastrutture che questa Biennale avanza proposte, ma piuttosto nellostudio dei progetti,nellaconcezione degli spazie nelrapporto della collettività con la natura, in un’architettura che si fa comunicazione. È una mostra che si pone comeelaborazione di pensieri, idee e temi,come testimonianza visuale di discussioni, conversazioni e nuove consapevolezze emerse, concepita come “una sorta di bottega artigiana”. Per predisporsi al “laboratorio del futuro”, questa nuova generazione di architetti ibridi ha volto lo sguardo al passato, soffermandosi sul presente e le sue problematicità. I “practitioners”raccontano e denunciano quello che è statocon l’ausilio di materiali di archivio, foto, video. Le pratiche presentate segnano la strada da dove veniamo ma non indicano quella che dovremo tracciare,si fermano alle domande che la nostra epoca pone,scandagliandole; portano i nodi al pettine ma senza scioglierli. È una mostra politica che riposiziona l’architettura, dichiarando che, come le politiche culturali, è chiamata a rispondere alle istanze che vengono dalla collettività, a dare valore più al processo che al fine, a favorire la partecipazione e la creazione di comunità, a considerare la spazialità come luogo di espressione politica, a tenere conto dellepersone non più come soggetti passivi ma come fruitori attivie protagonisti di un processo di transizione verso altro. Di questo altro, però, sfugge la definizione, la globalità e la complessità che richiedono visione, un sistema integrato, azioni e proposte concrete che la Biennale non dà. «The Laboratory of the Futurenon è un progetto educativo.Non vuole dare indicazioni, né offrire soluzioni,né impartire lezioni» chiosa Lesley Lokko. E allora resta una domanda:che impatto ha questo approccio? Che risultato produce?Per tentare di trovare una risposta tra i padiglioni c’è tempo fino a domenica 26 novembre 2023, ultimo giorno per visitare la Biennale Architettura aVenezia.

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