“Slay”, il documentario che scava sotto le pelli (animali) della moda

“Slay”, il documentario che scava sotto le pelli (animali) della moda

 

“Mentre guardavi questo documentario almeno 500.000animali sono stati uccisi per la moda, nemmeno uno per necessità”. Lo schermo diventa nero, scorrono i titoli di coda. Le luci del Cinema Anteo di Milano illuminano di nuovo la sala, le poltrone, il pubblico. Uno scroscio di applausi riempie il silenzio lasciato daSlay, il documentario prodotto e diretto dalla regista investigativa franceseRebecca Cappelli. Il suo lavoro, proiettato per la prima volta nelle sale italiane a febbraio del 2023,mira a creare un cambiamento culturale e a mettere le persone in condizione di diventare difensoridegli animali, del Pianeta e delle comunità vulnerabili. Perché è stata in primis lei, Rebecca Cappelli, a vivere sulla propria pelle questo cambiamento: da consumatrice di vestiti prodotti con materiali di origine animale, ad attivista per i diritti degli animali. «Mi sono resa conto che ero un’amante degli animali che però li indossava», spiega nella pellicola. Un’evoluzione a cui si assiste man mano che il documentario avanza e porta alla luce il lato oscuro dell’industria della moda. Nel 2020,secondoil Parlamento europeo, “ilsettore tessileè statola terza fonte di degrado delle risorse idriche e dell’uso del suolo. In quell’anno, sono stati necessari in media 9 metri cubi di acqua, 400 metri quadrati di terreno e 391 chilogrammi di materie prime per fornire abiti e scarpe per ogni cittadino dell’Ue”. Il 1° giugno 2023 i membri del Parlamento Europeo hanno presentato proposte per fermare la produzione e il consumo eccessivi di tessili. Il rapporto del Parlamento chiede che i tessili siano prodottinel rispetto dei diritti umani, sociali e del lavoro, nonché dell’ambiente e del benessere degli animali. «È davvero importante capire che la crisi climatica è una crisi etica, se non rispettiamo la vita. E la vita può essere un fiume, una foresta, o gli animali. Se non lo facciamo, non abbiamo la possibilità di affrontare davvero la crisi climatica e di trovare soluzioni reali», ha spiegato la regista alla proiezione del suo lungometraggio (disponibile gratuitamentesulla piattaformaWaterBear, che riunisce le pellicole dedicate all’ambiente), in occasione delFashion Film FestivalMilano,l’evento internazionale di moda e cultura fondato e diretto da Constanza Etro, alla sua 9° edizione, in collaborazione con la Camera Nazionale della Moda Italiana e il patrocinio del Comune di Milano. Cappelli ha parlato di fronte a una platea composta principalmente dastudenti di modadel master inFashion Communicationdell’Accademia Costume & Moda, le generazioni che avranno la possibilità difondare un nuovo sistema del fashion. Slaydenuncia il continuo utilizzo di pelli e pellicce animali nell’industria della moda. Il termine ha un doppio significato: letteralmente vuol dire uccidere (una persona o un animale) in maniera violenta, mentre nel gergo è usato per descrivere una persona che in italiano definiremmo “in tiro”.Attraversando 5 continenti, tra concerie, mattatoi, negozi, e intervistando attivisti, ex operai, esperti di sostenibilità, stilisti, designer e giornalisti, il viaggio della regista svelauna storia straziante digreenwashing, violazione dei diritti umani, etichettatura errata, crudeltà sugli animali e insabbiamentida parte di alcuni dei principali marchi di moda del mondo. «Tutti i brand principali danno informazioni sulla sostenibilità e sui loro operai. Ma quando si tratta degli animali che impiegano, non c’è quasi nessuna informazione a riguardo», spiega Cappelli nel documentario. Nella moda, il materiale di origine animale più comune èla pelle, che in gran parte viene prodotta inRussia, Italia, Brasile, Cina e India: è proprio da qui che parte l’indagine della regista. MaSlaysi concentra anche sullapelliccia, “il tipo di pelle più controverso”: nonostante numerosi marchi l’abbiano abbandonata negli ultimi anni, dopo numerose campagne di pressione, molti continuano a utilizzarla. “Secondo uno studio finanziato dalla stessa industria delle pellicce,solo il 25% di una pelliccia è biodegradabile”,viene spiegato nel documentario, e comparata a quella sintetica, “quella vera produce 7,5 volte più emissioni” e “per evitare che il pellame marcisca, le pellicce vengono trattate con sostanze come la formaldeide e metalli pesanti”, senza contare l’uso spropositato di acqua: secondo le stime delParlamento europeol’industria tessile e dell’abbigliamento avrebbe utilizzato globalmente 79 miliardi di metri cubi di acqua nel 2015, mentre nel 2017 il fabbisogno dell’intera economia dell’Ue ammontava a 266 miliardi di metri cubi. Alcuni dati indicano che per fabbricare una sola maglietta di cotone occorrano 2.700 litri di acqua dolce, un volume pari a quanto una persona dovrebbe bere in 2 anni e mezzo. Per realizzareSlaye indagare questi e altri strascichi dell’industria del fashion ci sono voluti3 anni e mezzo dal primo giorno di riprese al giorno dell’uscita, compresi 2 anni di ricerche investigative. «E questa è solo la mia parte», spiega Cappelli, anche fondatrice dell’azienda di produzioneLet Us Be Heroes, che ha l’obiettivo di creare film che accelerino la consapevolezza delle persone riguardo i temi della giustizia sociale per l’impatto ambientale ed etico. «Alcune delle persone che ho intervistato lavorano su questi temi da decenni e la maggior parte di loro da diversi anni. Si tratta diun patrimonio di conoscenze che non è stato ancora raccolto, ma che è già disponibile -continua Cappelli – Quello che è emerso è che abbiamo un rapporto problematico e molto pericoloso con gli animali. Ma non si tratta di additare determinati marchi: le persone si evolvono, i brand si evolvono. Alcuni sono desiderosi di cambiare, altri non vogliono farlo, non gli interessa, perché preferiscono guardare ai profitti». Le alternative già esistono:SQIM, per esempio, è un’azienda di (bio)tecnologia che sviluppa processi e prodotti innovativi, scoprendo il potenziale del micelio fungino come agente chiave per la biofabbricazione, per applicazioni in diversi settori industriali.Orange Fiber, invece, è una fibra derivante dagli scarti dell’arancia. E gli esempi sono tantissimi. Emma Hakansson, co-autrice diSlay, attivista e fondatrice dell’organizzazione non-profitCollective Fashion Justice, che si impegna a svelare le ingiustizie interconnesse nelle filiere della moda e creare un sistema totalmente etico, ha iniziato a lavorare in quest’industria come modella: «Non avevo alcuna considerazione etica, né degli animali, né del Pianeta, né delle persone -racconta all’Anteo – Quando ho iniziato a pensare ai vestiti che mettevo sul mio corpo, non solo per vestirmi ma anche per fare soldi, mi sono resa conto chestavo indossando pellicce, pelli di animali.Stavo contribuendo a un sistema che in realtà non era in linea con i valori che sostenevo come individuo, e questo significava che potevo provare a ignorarlo, oppure potevo lasciarlo». È importante considerare, secondo Hakansson, «ciò che indossiamo, ma anche il nostro potere di cittadini che possono impegnarsi politicamente». Si può cambiare tutto il sistema da un giorno all’altro?«No – spiega Cappelli -ma io, personalmente, non credo nei piccoli passi.Credo che se vogliamo davvero capire a che punto siamo ora, dobbiamo fare passi davvero da giganti. […] È molto facile sentirsi sopraffatti, chiudersi e non fare nulla. E questo è l’errore che dobbiamo evitare insieme. Vorrei che tutti i presenti in sala si sentissero non solo sopraffatti, ma ancheautorizzati a diventare protettori della vita».