Quando l’unica opzione è il mare

Quando l’unica opzione è il mare

 

L’11 ottobre 2013 un peschereccio con quasi 500 persone a bordo si ribaltòmentre cercava di raggiungere l’Europa dalla Libia,costando la vita a 268 persone, tra cui 60 minori.8 giorni prima il mare aveva inghiottito 386 anime. La “nave dei bambini” era affondata in acque di competenza maltese, ma più vicino aLampedusa: per questo, alcuni superstiti avviarono un procedimento legale contro la Guardia Costiera e la Marina Militare italiane, accusandole di omissione di soccorso per non essere intervenute dopo aver ricevuto l’allarme. Èa questo ennesimo, straziante, naufragiochesi ispirail romanzoNato sul confine(Rizzoli, 208p., 16€)di Fabrizo Gatti, ex giornalista investigativo deL’Espressoe già autore diBilal. Non solo a quelle drammatiche quattro ore e mezzo mezzo alla deriva, in attesa dell’esecuzione di un ordine che poteva essere operativo in “trentasei secondi”, ma soprattutto a quellevite, di fantasia ma così reali,che a quel peschereccio affondato hanno affidato le loro speranze di un futuro migliore.Per loro stessi, ma soprattutto per i loro figli. La storia di Zara, farmacista siriana infuga dalla guerra e dal Mukhabarat, e delle famiglie dei tantissimi medici, così tanti da “poter aprire un ospedale”, che come lei hanno abbandonato le loro case inSiria– portando con sé le chiavi, fino ai confini del mondo, con la promessa di poter tornare – sonoraccontate dauna voce d’eccezione:il piccolo Mabruk, non ancora venuto alla luce, che dentro al grembo accogliente di sua madre si fa narratore e protagonista. Attraverso la sua voce, piccola eppure potente, scopriamo pagina dopo pagina come si vive “a casa loro”, dove “c’è di peggio della guerra e quel peggio ci sta accadendo”. E mentre viaggiamo dalla città ribelle di Homs aAleppoe dalla Siria fino alle coste libiche e poi, ancora, su quel peschereccio “inaffondabile” abbattuto dagli AK-47 dei miliaziani, non possiamo non chiederci “cosa avrei fatto se fosse stato mio figlio?”. Nella poesiaHome, la poetessa keniotaWarsan Shireha scritto che “nessuno mette i suoi figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra” e nelle pagine di Gattiquel senso di inevitabilità e di mancanza di alternative è palpabile. “Vogliamo solo che sia sano e non nasca in guerra. È l’unico nostro desiderio”, dicono i genitori di Mabruk. Attraversare il mare, a rischio della vita, è l’unico modo. Sì, perché questo breve ma intenso e toccante romanzo è, soprattutto, la risposta a una di quelle domande crudeli, che su questi genitori in fuga dall’orrore disposti a rischiare tutto e anche di più per salvare i propri figli, vorrebbero aggiungere il peso della colpa, che ritornano ogni volta che il mare si fa cimitero: “ma perché non vengono in aereo?”. Quella di Zara e dei suoi compagni di viaggio è la storia di medici, professionisti specializzati che magari hanno girato il mondo per studiare e che, fino allo scoppio della guerra, potevano muoversi liberamente. Ma “quando ti scoppia la guerra in casa, diventi un appestato:tutti ti chiudono la porta in faccia, anche se hai i soldi per mantenerti e le capacità, una qualifica universitaria, un mestiere”. Non sei più niente di quello che eri, sei solo un appestato a cui deve essere impedito di varcare la frontiera. E alloraniente più visti, niente più permessi, per impedire a queste persone povere o impoverite di trasferirsi nei Paesi più ricchi. Certo, è possibile chiedere la protezione umanitaria, ma per ottenerla devi raggiungere l’Europa. E, poichéil visto per protezione umanitaria non esiste, l’unico modo per entrare è farlo da clandestini, consegnandosi nelle mani dei criminali per cui quelle vite sono solo numeri, dollari. Eppure nelle storie raccontate da Gatti non c’è solo paura e disperazione: c’èdignità, solidarietà, amore, libertà, desideri. C’è la vita, in un grido che squarcia la notte e che continua a urlarci nelle orecchie il senso di profonda ingiustizia impossibile da accettare.