Il diritto di prendersi spazio

Si è appena conclusa una 3 giorni intensa per ilWeWorld Festival,ospitato anche quest’anno aBase Milanoe organizzato dalla Ong stessa, che da 50 anni si impegna a garantire i diritti di donne e bambini. Un programma ricchissimo dieventi, talk, performance, mostre e filmper parlare dellacondizione delle donne in Italia e nel mondo.Il tema centrale di questa edizione è stato: “Conquistiamoci spazio”. Il concetto dispaziomi ha sempre regalato riflessioni, perché come lo abitiamo ha quasi sempre a che fare con ilgenere in cui ci identifichiamo.Abitiamo lo spazioattraverso il corpo e le idee, il lavoroche facciamo, ildenaroche abbiamo. Possiamo prenderci più o meno spazio, ci diciamo, quando diventiamo madri e tentiamo di portarci a casa le giornate, provando a dividere il carico di incombenze con i padri.Lo spazio per sé, lo spazio della vita pubblica, la libertà di occupare spazioche per secoli e secoli si è tradotta in un confino: allargarsi senza mai straripare. Ci pensavo mentre tornavo a casa, prima in metropolitana e poi in treno, eguardavo l’intorno di persone occuparlo, lo spazio. Sempre in modi differenti. È la modestia, la pudicizia, a dirci che un sedile di un mezzo pubblico va occupato con le gambe incrociate, le spalle strette, o un’insidiosa convinzione che dovremmo rimpicciolirci, contorcerci in pacchetti ordinati e maneggevoli,scusandoci per lo spazio che stiamo riempiendoo sottraendo a qualcuno? Mi è stavo particolarmente difficile non pensare atutto lo spazio che per le donne ancora manca: nelle sale riunioni, nelle stanze dei bottoni.Manca spazio per l’autodeterminazione dei corpi, nelle narrazioni, che tu sia madre, lesbica, donna trans, in carriera, in cerca di lavoro, che non vuole figli, che tu sia donna, insomma: inun mondo che è stato progettato per chi donna non è. Prendersi spazio, vuol dire, innanzitutto, prendersi quello dellaconsapevolezza. Perché dopo la consapevolezza arriva il dialogo, la condivisione. Ma può succedere anche l’opzione inversa: parlare, sentir raccontare e fare propri nuovi punti di vista. È il motivo per cui ha ancora (e se posso, ancora di più in questo momento storico) senso e urgenza l’opera di divulgazione e sensibilizzazione. Lospazio è una questione femminista. Il corpo è una questione femminista.Il denaro è una questione femminista. L’erosione di diritti conquistati è una questione femminista. Farsi domande su come opporsi a questo è una questione femminista. Le parole che usiamo per costruire la realtà e, possibilmente, per non nuocere ad altri e altre, sono una questione femminista. E, a valle, di queste considerazioni, il movimento di corpi e idee che ancora si agita intorno a certe tematiche è inarrestabile e non può passare inosservato. Se ancorail corpo delle donne è oggettivizzato, quanta responsabilità ha il mercato? Dicorpi, spazi, implicazioni capitalistiche e percezioni distorte dai socialmedia, hanno discusso, tra le altre,Sara Ventura, ex tennista professionista, le attiviste Francesca Bubba, Nogaye Ndiaye, Lara lago e Cathy la Torre. Il corpo che cresce, quello degli adolescenti è stato invece discusso toccando temi importanti come l’autocoscienza, l’identità di genere e l’identità digitale. Lo spazio del corpo e dei vissuti, legato alle parole per raccontarlo, è stato oggetto di 2 dibattiti. Il primo, conil filosofo Lorenzo Gasparrini,la vice presidente diFondazione DiversityGabriella Crafa e la content creator Momoka Banana, si è interrogato riguardoil potere che ha il linguaggio nel costruire la realtàe di come, spesso inconsapevolmente, utilizziamo espressioni con un portato insultante.Decostruire le narrazionilegate al genere, all’orientamento sessuale, alla provenienza è fondamentale non solo per non nuocere a chi occupa spazio insieme a noi ma anche per riscrivere insieme un futuro che non discrimini. Il secondo, intitolatoIl diritto di scrivere del proprio corpo – Da Annie Ernaux ai socialha visto passarsi il microfono Flavia Brevi, fondatrice diHella Network, Federica di Martino, Linda diFreegidae Lorenzo Flabbi, editore e traduttore diAnnie Ernaux. Attraverso una lettura critica di alcune pagine della scrittrice francese si è ripercorso il grande assunto del “personale è politico”, indagando alcuni temi centrali come l’aborto, lemestruazioni, lamasturbazione, lerelazioni affettive, rivendicando ildiritto di scrivere di sé,di guardare per sé. Gli occhi che guardano, però, non solo soltanto quelli degli adulti ed è per questo gli spazi da conquistare partono dalla cultura perchédove c’è cultura della violenza si genera violenza.Per questo occorre partire dai più piccoli, i bambini e le bambine, per parlare di consenso: ne hanno discusso Roberta Fiore formatrice nelle scuole e coordinatriceSpazio Donna WeWorldScampia; Alessia Dulbecco, pedagogista e autrice nell’ambito della pedagogia di genere; Alessio Miceli diMaschile Plurale, associazione impegnata nella ridefinizione dell’ identità maschile, plurale e critica verso il modello patriarcale. Riguardo i nuovi spazi da conquistare, merita un approfondimento speciale lagiustizia sessuale e riproduttiva: quanto le donne, in questo ambito, sono ancora penalizzate dal solo essere donne? Se ne è parlato inWeCare. Senza giustizia sessuale e riproduttiva non ci può essere parità di generecon l’attivista e scrittrice Giorgia Soleri, ladoulaFrancesca Palazzetti, Martina Albini diWeWorlde l’esperta di gender Alice Macharia. Il concetto di giustizia sessuale e riproduttiva supera quello più ristretto di salute sessuale e riproduttiva per aprirsi a tutta una serie di altri diritti e libertà fondamentali. 2 dati mi hanno scosso particolarmente:ogni 2 minuti una donna muore nel mondo per cause risolvibili legate a parto e gravidanzae il45% degli abortipraticati nel mondonon sono sicuri.Garantire questa giustizia non significa solo garantire i basilari diritti sessuali e riproduttivi, ma anche ildiritto alla vita,alla privacy, all’educazione, all’informazione, alla libertà da ogni forma di violenza. Si tratta, in sostanza, di un veicolo fondamentale per la promozione dei diritti umani e dellaparità di genere. Quando parliamo di parità è impossibile non pensare al concetto digender pay gape di come il potere legato al denaro ancora discrimini in tutto il mondo il genere femminile. Eppure, lo spazio (e la felicità) si conquistano soprattutto attraverso l’emancipazione economica e un discorso pubblico che ponga al centro la tematica.Quante donne sanno negoziare in fase di colloquio lavorativo?Quanto pensano che valga il loro apporto in termini economici? Parlare di soldi si può e si deve anche se per lungo tempo ci è stato detto il contrario, come mi hanno insegnato Azzurra Rinaldi, economista, e Annalisa Monfreda, giornalista e fondatrice della piattaformaRame. Chiudo questa breve rassegna degli eventi che mi sono rimasti più impressi conSex and the City: ricerca situata che effettua scelte, elabora esperienze e interagisce attivamente con la vita pubblica. Al suo centro la costruzione di unAtlante di genere di Milano: una mappatura critica nella quale i capisaldi del discorso di genere (che riguardano il rapporto fra la produzione e la riproduzione, le politiche sul corpo delle donne, la violenza di genere, il diritto alla città) diventano spazi fisici che traduconoesigenze specifiche, e reti di soggetti che animano e danno senso all’esistenza di quegli spazi. Ne hanno discusso insieme Elena Lattuada (delegata del Sindaco di Milano alle Pari Opportunità) e Michela Cicculli, Presidente della commissione Pari opportunità di Roma Capitale, moderate da Annarita Briganti (giornalista deLa Repubblica). L’Atlante è costruito attraverso lasovrapposizione di più livelli di lettura critica della città.La mappatura ambisce a restituire le declinazioni che lacittàproponerispetto alla vita delle donne.Indagandone gli usi, intercetta i servizi che a vario titolo rispondono a esigenze legate alla loro vita quotidiana: i luoghi per l’allattamento sicuro, i servizi igienici pubblici, gli ascensori in metropolitana, le aree gioco, gli asili nido, le piazze aperte. La vita quotidiana delle donne è, infatti,condizionata dalla necessità di fare fronte alla maggior parte del lavoro di cura non retribuito. Trattare la mobilità e altri aspetti della vita urbana come “questioni di genere”, tuttavia, non significa avallare lo stato delle cose: è “solo” lo stato delle cose. Viceversa, lacittà delle donne(se esistesse) sarebbe la città di tutte e di tutti, aspirerebbe a una rottura dei ruoli precostituiti e a una equa distribuzione fra i generi dei carichi legati alle responsabilità riproduttive. La città delle donne, alla quale questa indagine guarda,mette al centro la cura, a prescindere dal genere che se ne occupi.