Esiste una pesca sostenibile?

Un viaggio alla scoperta delleminacceche annichiliscono gli oceani e minano la sopravvivenza di tutti gli ecosistemi marini.Questo il lavoro portato avanti daAli Tabrizi, videomakere appassionato fin dall’infanzia di mari e di tutte le creature marine che vi abitano. Cresciuto con i documentari geografici di Jacques Cousteau, David Attenbrough e Sylvia Earle, porta avanti un giornalismo investigativo che smaschera molteplici forme di violenza nei confronti di tantissime specie dimammiferi mariniepesci da allevamento. Il suo ultimo docufilm,Seaspiracy, punta a fare luce sull’apporto inquinante dell’esubero dellereti da pesca neglioceani, sull’impatto catastrofico che la pesca intensiva ha sull’ecosistema, e su quanto questo incida sulclimate change. Se all’inizio l’atmosfera illustrata è tendenzialmente romantica, con il passare dei minuti la linea narrativa cambia improvvisamente rotta: si iniziano a vederebalene spiaggiate imbottite di plastica e delfini morti con la pancia piena di immondizia.Queste due specie hanno una funzione fondamentale nella produzione dell’85% di ossigeno che respiriamo, soprattutto se si considera che quando emergono verso la superficie, rimescolano le acque garantendo così la sopravvivenza delfitoplacton, microorganismi che assorbono l’anidride carbonica e restituiscono l’ossigeno 4 volte più di quanto non facciano le piante dell’intera foresta amazzonica. Distruggerle significa distruggere l’essere umano. La pesca intensiva e lo sfruttamento del mare Il docufilm si concentra sulGiappone, Paese che porta avanti unacaccia indiscriminata alle balenenell’Oceano Pacifico, nonostante il divieto internazionale in vigore dal 1986 e, secondo il fondatore delDolphin Project Ric O’Barry, anche grazie alla corruzione delle forze dell’ordine, spesso costrette a intervenire con violenza nei confronti di tutti gli oppositori. Ali Tabrizi documenta quello che succedea Taiji, doveogni anni vengono massacrati circa 700 cetacei. Dal 2000 al 2015, infatti, per ognidelfinocatturato ne sono stati uccisi 12, con la motivazione chei mammiferi marini mangiano troppo pescee sbarazzandosene, si incrementa il mercato ittico, soprattutto quello del tonno rosso, particolarmente costoso. Seppur nel Pacifico sia rimasta in vita solo il 3% della specie, il fatturato è di 42 miliardi di dollari l’anno. Anche gli squali sono sotto attacco, con uccisioni continue ed elevate. Il 50% delle loro morti avviene a causa della pesca accessoria portata avanti da pescherecci commerciali. Si tratta di50 milioni di squali che muoiono per pesca accidentale, una cattura involontaria di una specie marina avvenuta mentre si pesca un altro esemplare; uscendo dall’acqua fianco a fianco al pesce destinato alle industrie, i cetacei indesiderati vengono poi ributtati in mare come immondizia, già morti perché soffocati prima. I marchi della pesca sostenibile Le scoperte del ventisettenne diventano ancora più impressionanti quando la lente d’ingrandimento si sposta sui grandi marchi come laMarine Stewardship Council, premiata annualmente con l’etichetta “salva delfini”. Come riportato dall’associazioneSea Shepherd,per uccidere 8 tonni vengono uccisi fino a 44 delfini, un modus operandi che riguardaanche i marchi che si dichiarano a favore di una pesca sostenibile. Tramite un’intervista a un rappresentante dell’Earth Island Institute, si capisce chenessuno è in grado di garantire una pesca di tonno ecologicae in contrasto all’inquinamento; se lo si dichiara è solo a scopo di marketing e senza davvero risolvere il problema, ma cercando di raggirarlo per sfruttarlo a suo vantaggio. Mentre sui siti delle principali organizzazioni a difesa del mare si incitano le popolazioni a eliminare il consumo di cannucce di plastica e chewingum, nessuno parla della pesca commerciale come la prima minaccia di distruzione di tutte le barriere coralline del mondo. Ma non solo,Seaspiracyrivela cheil vero killer nel mare è il filo delle reti da pesca, presente in un quantitativo tale da avvolgere il Pianeta per 500 volte al giorno, cheoltre a uccidere 250 milatartarughel’anno, inciderebbe per il 46% sull’inquinamento di plastica nel mare. Esiste la pesca sostenibile? Per intraprendere la strada della sostenibilità, alcuni esperti come la dottoressa Jane Hightower e il fisico Michael Klaper, suggeriscono diridurre o eliminare il consumo di pesce, soprattutto se si considera che la catena alimentare acquatica è la fonte più concentrata di inquinanti industriali; vivere senza ci risparmierebbe molti metalli pesanti tossici come il mercurio e le diossine.Non esiste il pesce pulito, perché tutto l’inquinamento finisce in mare. Se proteggiamo di più, peschiamo meno e riscostruiamo un ecosistema sano,c’è ancora speranza per le barriere corallinedi tutti i mari, capaci di riprodursi velocemente. Tutto questo sarà possibile solo se saranno chiusi larghi tratti di mare alla pesca commerciale. L’oceanografa statunitense Earle afferma: «Non è troppo tardi, possiamo ancora sperare di avere una casa in questo universo. Tutte le cose prodotte dalla civiltà sono partite da una sola persona; nessuno può fare tutto da solo, ma tutti possiamo fare qualcosa, e a volte le grandi idee fanno una grande differenza».