Gaia Tortora e il dovere di ricordare

SeGaia Tortorasapesse, ma forse già lo sa, che il ricordo di suo padre è così tanto, ma così tantoimpresso nella memoria familiare di milioni di famiglieche nei primi Ottanta sedevano davanti a un unico televisore magari ancora in bianco e nero, e guardavano quelpappagallomusone che non parlava mai a cui tutti urlavano“Portobello!”(e quante volte ci abbiamo provato anche noi bambini, che col pensiero magico magari davvero poteva succedere) eil volto di quel presentatore lì dalla nostra testa non se n’è andato maie poi mai, non è riuscito a scindersi dal ricordo delle nostre serate in casa quando davvero c’era ben poco da fare e si stava tutti lì davanti aEnzo Tortoracheera un adulto serio, elegante, educato. Uno importante della tvche assomigliava anche un po’ ai nostri papà. Se Gaia Tortora sapesse, ma secondo me lo sa già, che per noi, per quella generazione lì che poi è anche la sua, quel padre tanto amato e vittima d’una Ingiustizia giuridica, mediatica, umana,non è l’uomo ammanettato a favore di fotografiche la mattina del 17 giugno 1983 – il giorno dell’esame di terza media della figlia minore – viene condotto in carcere perchéinchiodato da testimonianze di camorristi false e calunniose, non è ilgiornalistavittima di una malagiustizia che credeva più ai pentiti che agli uomini onesti, non è il padre minato nella salute che scrive lettere dolcissime alla figlia in carcere, l’eurodeputato che rinuncia all’immunità per difendersi contro una vicenda kafkiana. Nella memoria collettivadi chi è oggi intorno ai 50,Enzo Tortora è un uomo perbene. Uno di famiglia. Un ricordo di divani di velluto verdi,televisoricon grandi manopole, grembiuli bianchi di scuola, i quiz che ci divertivano davvero, mamma con una retina verde vaporosa per tenere fermi i bigodini. Tortora era a casa. Era casa. Bastasse questo a ridare un po’ di ossigeno alle memorie personali chela figlia Gaia ha racchiuso nell’intenso libroTesta alta, e avanti(Mondadori)sarebbe già una piccola consolazione collettiva. Ma se l’eco della vicenda umana e giudiziaria del padre si è dissolta e confusa con le tante storie oscure del nostro Paese, per la famiglia quei processi, quelle ferite bruciano ancora molto forte. E oggi lasciano il posto alricordo doloroso, alla riabilitazione personale dell’uomo, alla rielaborazione di chi di quella famiglia è rimasto e ora ha la forza di raccontare. La mattina dell’arresto Gaia Tortora si prepara a sostenere l’esame di terza media.La sua vita spensierata si ferma per sempre lì. Da quel momento lei, la sorella Silvia, la mamma Miranda saranno unite e ferme a sostenere la battaglia del padre. Insieme a loro, amici fraterni comePiero Angela, e tanti nemici nemmeno troppo nascosti, compresoun Paese spaccato a metà tra innocentisti e colpevolisti, tra chi amava Tortora e chi da sempre lo detestava. Scrive Gaia: «Ho impiegato anni ad accettare che questa vicenda fosse successa a me. Siamo inestricabili, io e lei. Ho scoperto da piccola che l’unico modo per sopravvivere era proteggersi sotto strati e strati di scorza dura, come se nulla potesse scalfirmi. Nessuna fragilità, nessuna vulnerabilità». Invece la ragazza è forte solo in apparenza.L’adolescenza si presenta puntuale con le sue difficoltà:lascuolache non va, la ribellione, i disturbi alimentari, le frizioni con la mamma,tutto mentre papà è assente: prima è sempre al lavoro in tv o in giro per l’Italia, poi in carcere o agli arresti domiciliari, poi in ospedale dovemuore a 59 anni, da uomo libero e innocente ma logorato per sempre dalla sua vicenda. Senza papà la battaglia personale di Gaia va avanti:cerca consolazione sui lettini degli analisti, nella religione buddista, nella musicoterapia, nell’arteterapia, nel lavoro da brava giornalista tv che però – come confessa in queste pagine – al pensiero della diretta va in crisi di panico. Gaia prova a riunirsi col suo doppio: la ragazza forte che tiene la testa alta davanti ai fotografi e la donna fragile che va in cerca di una sua strada. Un lavoro costante, che continua ancora oggi nonostanteil dolore si ripresenti puntuale ogni volta che il nome di suo padre riemerge a sproposito.«Allora l’organo-dolore si risveglia. – scrive – Il male che sento è identico a quello di allora. Immagino che sia inevitabile: il centesimo taglio, in fondo, non duole meno del primo». Il 15 settembre 1986, a 1.185 giorni dall’inizio del suo calvario,i giudici assolvono Tortora con formula piena, e con lui 113 dei 191 imputati, riconoscendo l’inattendibilità dei pentiti.Una ulteriore conferma arriva in Cassazione nel 1987. Nello stesso annofa ritorno in tv alla guida diPortobellocon la famosa frase: «Dunque, dove eravamo rimasti?». Muore un anno dopo, e sceglie di farsi seppellire con i suoi celebri occhialini d’oro e con una copia dellaStoria della colonna infamedi Alessandro Manzoni. Ancora oggi, ricorda l’autrice in un capitolo del libro dedicato alle vittime di malagiustizia,in Italia ogni anno 7 persone sono giudicate colpevoli quando non lo sonoe mille innocenti vengono ingiustamente sottoposti alla misura di custodia cautelare. Sono circa 3 al giorno.