Parto in anonimato: come funziona?

Parto in anonimato: come funziona?

 

Forse sembrerà incredibile, viste le ultime ore di chiacchiericcio sulcaso della “mamma di E.”, di accuse, di commenti sulla “sconfitta della società”, didubbi video-appelli da Dubaiperché tornasse dal figlio “abbandonato” e di quello che sembra un promettente filone narrativo dei “nuovi casi E.” che già iniziano a popolare le cronache, main Italia le donne hanno ancora il diritto di partorire anonimamente. Di non essere riconosciute legalmente, quindi, madri del bambino o della bambina appena venuta alla luce. E hanno il diritto che questo anonimato rimanga totale, per sempre. La storia ci insegna che i diritti conquistati non sono eterni ma, dal 2000 e almeno per il momento, quello delparto in anonimato è un diritto sancito per legge. Vediamo come funziona e quali possibilità hanno le donne incinte chenon hanno intenzione di riconoscere il nascituro. Come funziona il parto in anonimato? Ilsitodel Ministero della Salute spiega che “la donna che non riconosce e il neonato sono i due soggetti che la legge deve tutelare,intesi come persone distinte, ognuno con specifici diritti. La legge consente alla madre dinon riconoscere il bambino e di lasciarlo nell’ospedale in cui è nato(DPR 396/2000, art. 30, comma 2) affinché sia assicurata l’assistenza e anche la sua tutela giuridica. Il nome della madrerimane per sempre segretoe nell’atto di nascita del bambino viene scritto ‘nato da donna chenon consente di essere nominata’”. In queste brevi parole risiede l’essenza della legge (l’articolo 30 del Decreto del presidente della repubblica 03 novembre 2000, n. 396) che tutela allo stesso tempo le donne che vogliono partorire in anonimato e il piccolo che viene alla luce. Alcomma 1, infatti, il decreto recita: “La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori,daun procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o daaltra persona che ha assistito al parto,rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”. Questo garantisce il diritto all’anonimato della madre senza negare quelli del piccolo. Al neonato non riconosciuto, infatti, continua il sito del Ministero, “devono essere assicurati specifici interventi, secondo precisi obblighi normativi, per garantirgli la dovuta protezione, nell’attuazione dei suoi diritti fondamentali”. Nei casi in cui la madre abbia scelto di restare nell’anonimato, quindi,saranno il medico o l’ostetrica a fare la dichiarazione di nascita. Per eventuali necessità mediche del bambino, viene effettuata un’anamnesi riguardo la storia clinica e vengono raccolte informazioni relative alle notizie mediche riguardanti la donna che ha partorito, matutto avviene in forma anonima. Nei servizi sociali e negli ospedali, spiega il sitoCulle per la vitaillustrando i diritti delle madri, “tutto il personale ha l’obbligo di osservare la massima riservatezzarispetto alla madre che ‘non consente di essere nominata’ e dimantenere il segreto all’esterno su tutto ciò che la riguarda. Il nome della madre e le notizie su di lei sono tutelate per legge dal segreto”. Ma di che numeri stiamo parlando? Il fenomeno di quelle che vengono a volta chiamate“madri segrete”secondo i dati della Società Italiana di Neonatologia in collaborazione con il progettoNinna Ho(che dal 2008 tutela l’infanzia abbandonata) “incide a livello nazionale per circa lo 0,07% sul totale dei bambini nati vivi”, circa 300 all’anno. Tra le 1.072 dichiarazioni di adattabilità rilasciate nel 2021, in173 casinon era nota l’identità dei genitori. Parto in anonimato: cosa succede dopo? Nei casi in cui una madre decida di non riconoscere il bambino, l’ospedale si occupa di fare un’apposita segnalazione allaProcura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni, indicando la “situazione di abbandono del neonato non riconosciuto” e permettendo l’apertura di un procedimento di adottabilità, oltre alla “sollecita individuazione di un’idonea coppia adottante. Il neonato vede così garantito il diritto a crescere ed essere educato in famiglia e assume lo status di figlio legittimo dei genitori che lo hanno adottato”. Secondo laLegge 2001 n. 149,nata come conseguenza di un obbligo derivante dallaConvenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 1989(art. 7) e dellaConvenzione de L’Aja sull’adozione internazionale del 1993(art. 30), chi è stato adottatoha diritto ad avere informazioni sull’identità dei genitori biologici. Questo, però,non vale nei casi in cui la madre naturale non abbia riconosciuto il neonato: l’art. 24 comma 7, infatti stabilisce che “l’accesso alle informazioni non è consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo”. È comunque possibile però chiedere alla madre, se ancora in vita, se intenda rendere disponibili le informazioni che la riguardano. Pertanto, conclude il Ministero della Salute, “il diritto a rimanere una mamma segreta prevale su ogni altra considerazione o richiestae ciò deve costituire un ulteriore elemento di sicurezza per quante dovessero decidere, aiutate da un servizio competente e attento, a partorire nell’anonimato”. Cosa sono le culle per la vita? Tutte le donne che partoriscono in Italia, quindi, hanno il diritto di non riconoscere il bambino,affidandolo alle cure dell’ospedalee rimanere anonime. Nel caso che ha occupato le cronache negli ultimi giorni, però, e in altri casi simili, non è questa la procedura scelta dalla madre, che ha invece utilizzato una di quelle che prendono il nome di “culle della vita”. Eredi ideali delle medievali “ruote degli esposti”, si tratta di strutture pensate per permettere ai genitori di lasciare i neonati sapendo chesaranno totalmente protetti e immediatamente accolti, nel pieno rispetto della sicurezza del bambino e, teoricamente, della privacy di chi lo deposita. L’utilizzo, come spiega il sito, è molto semplice: si preme il pulsante per avviare l’apertura della culla e, una volta aperta, si adagia il bambino all’interno. La culla si chiude autonomamente per proteggerlo, mentre un allarme avverte i sanitari che possonoprestare immediatamente le cure necessarie. Collocate in luoghi facilmente raggiungibili eprivi di telecamereper garantire l’anonimato, sono dotate di una serie di dispositivi che permettono un facile utilizzo e un pronto intervento per la salvaguardia del bambino: riscaldamento a 37°, chiusura in sicurezza della botola, presidio di controllo h 24 e rete con il servizio di soccorso medico.Trascorsi i 10 giorni previsti per un’eventuale riconoscimento,i neonati vengono dichiarati adottabilisecondo lo stesso iter previsto per i bambini non riconosciuti in ospedale. In Italia sono poco meno di 60,distribuite in maniera non uniforme su tutto il territorio: quella dell’Ospedale Mangiagalli di cui si è molto parlato in questi giorni (e che prima di Pasqua era stata utilizzata altre 2 volte dall’apertura 16 anni fa, nel 2012 e nel 2016)è una delle 11 “culle” lombarde, ma la media regionale è molto più bassa e ci son alcune regioni (Calabria, Friuli Venezia-Giulia, Sardegna, Molise, Trentino Alto-Adige)in cui non c’è nemmeno una struttura di questo tipo. La “culla” è un’iniziativa legata al Movimento Pro Vita. Anche il sitoCulleperlavita.itè legato alCentro di Ascolto alla Vita di Abbiategrasso-Magenta-Rho: i “CAV”, centri di aiuto alla vita o di ascolto alla vita (da non confondere con i Cav, Centri Antiviolenza), sono associazioni laiche e apartitiche che fanno parte del Movimento per la Vita, il cui fine è offrire alle donne alla prese con una gravidanza indesiderataalternative all’abortoe, come in questo caso, impedire l’abbandono di neonati da parte delle madri che non vogliono o non possono occuparsene. ”Le Culle per la Vita sono una iniziativa del Movimento per la Vita Italiano nata nel 1993per limitare i casi di neonati abbandonati nei cassonetti o per strada con gli effetti, spesso tragici che tale azione comporta”, si legge sulsitodel MpV lodigiano.