Siamo condannati alla incomunicabilità digitale?

 

Mia nonna ha 92 anni e usa whatsapp. Fa parte della generazione silenziosa, quella caratterizzata da poche nascite e che tende aavere un approccio conservatore alla vita e alla società. Nata nel 1930, usa un tablet manovrando applicazioni, messaggistica, foto e ricerche nel browser, servendosi della gomma della matita che usa per fare le parole crociate. Dal dispositivo, tiene stretta la maglia del parentado, dei bisnipoti d’oltralpe, dei parenti fuori dal continente, ma anche di noi, che abitiamo nella stessa città. Invia note vocali, perché le risultano più comode. A vederla china sullo schermo, con il peso di quasi un secolo intero sulla schiena,mia nonna sembra una chimera. Una creatura ibrida, che si traghetta da un sistema all’altro,vivendo un’identità digitale in un mondo che non è pensato per lei. La rete, infatti, è molto selettiva nella scelta della sua utenza. Una volta, erano i Millennials come me il riferimento, i destinatari per eccellenza del prodotto mediale digitale. Internet, in Italia è arrivato proprio in Aprile, nel 1986,nell’anno che segna l’inizio della generazione Y, quella nata con internet. Prima, però, chiuse tra noi dell’Internet e la generazione silenziosa – tra me e mia nonna-, stanno la generazione X, e prima ancora, quella Boomer. Due generazioni, che con il digitale hanno dovuto e devono ancora oggi fare i conti, sebbene con crescente fatica. La grammatica digitale non è nota a tutti, anzi. I contenuti dei primi anni di Internet erano poca roba, rispetto alla varietà e all’alberatura delle piattaforme di oggi. Un complesso intrico di connessioni che trascendono i computer e che si diramano ai nostri corpi, alle nostre menti. Provando a ricordare windows 98 viene da pensare che l’internet per i Millennial fosse un beta test,in attesa di una generazione capace di abitare dentro il network, e non di limitarsi a viverci accanto. E quella generazione è arrivata, dopo il 1996: la gen Z. Si muovono nel mondo delle piattaforme digitali come fossero vie di una città e, sebbene noi Millennials abbiamo imparato a tenere il passo, iniziamo a cedere. A renderci conto cheloro sono il nuovo cittadino privilegiato della rete. La quotidianità digitale non è un semplice uso, ma una vera e propria interazione reciproca. Le persone parlano alla rete e questa risponde, costantemente. E non mi riferisco solo ai picchi di innovazione digitale come chat gpt, l’intelligenza artificiale di cui ancora non ci possiamo capacitare, ma anche a più semplici prassi personali. Abitare la rete significa avere un’identità mista, analogica e digitale, e viverla in maniera cosciente. Nel digitale si realizzano comportamenti e azioni che hanno effetti sul reale non convertito. Anzi, forse persino la definizione di “digitale” appare incompleta di fronte ai codici interattivi della gen Z. Non si tratta più di qualcosa di discontinuo o discreto, ma di una continuità che lega il virtuale e l’esterno concreto in maniera indissolubile.Il digitale è reale, è tangibile, ha sconfinato dai dispositivi e si è innestato nell’organicità delle nostre vite. Gli stessi codici di interazione sono cambiati, in una maniera così drastica da lasciare inebetiti anche i più scafati delle generazioni precedenti. Le relazioni personali si intrecciano sul piano virtuale, accrescendo e moltiplicando le interazioni, descrivendo e proponendo nuovi modi per comunicare. Si parla con modi e gesti che nella vita esterna allo schermo richiedono qualche movimento di pollice, ma che a livello emotivo sono ricevuti con una carica estremamente più complessa. Anzi, probabilmente, in quella che molto spesso viene descritta come una perdita da occhi superficiali,è nata una capacità espressiva che condensa e supera i limiti delle espressioni verbali e fisiche. Fa sempre un po’ sorridere vedere una persona di una generazione più grande lanciarsi nell’uso del gergo di quella più giovane. C’è un palese impaccio, un limite derivato dal suo assesso culturale di riferimento, che si riverbera in qualche modo nelle parole e nei gesti. Il tentativo appare uno spettacolo, una vera e propria messa in scena con tanto di trucco e copione. Questo perché il “lingo” è attivo, è abitato da chi lo mastica abitualmente ed è identitario, dunque permette di trovare un terreno comune con una continuità che, tendenzialmente, si collega a riferimenti e codici già condivisi.Qualcosa che spesso ha proprio a che fare con l’età. Le generazioni però, dialogano tra loro, non sono divise in compartimenti stagni. Anzi, la crescita passa proprio dall’interazione con altre generazioni, dallo scambio, dal confronto e, troppo spesso, dallo scontro. Uno scontro che si gioca su un piano condiviso, da cui sono esclusi tutti i riferimenti particolari che si trasformano in rifugio. “Ok boomer” e la palla torna al centro. Si dice qualcosa che ha un significato preciso e si taglia il discorso, o meglio, si ricorda che c’è un divario. E poi, possibilmente, si fugge proprio nello spazio che sta oltre. Uno spazio di cui la controparte è in parte ignara e di cui, al passare del tempo e all’aumentare della relazione tra persone e virtuale, è sempre più conscia di essere ignorante. L’analfabetismo digitale non riguarda solo chi è colpito da digital divide, ma anche chi abita la società informatizzata, ma, più semplicemente, lo fa da molto tempo e non si è nutrito sin dalla nascita secondo i principi di alimentazione digitale. I contenuti, poi, non si limitano a comunicare con parole chiuse a chi non mastica il lingo, ma anche a usare mezzi di comunicazione non necessariamente verbali. Immagini e riferimenti si fondono a contesti e ritualità, gli sticker e altre immagini mediali diventano prototesti da cui solo un lettore interno potrà estrarre una traduzione valida. Per stare dietro alla gen Z, non bastano corsi di aggiornamento, perché si parla di una cultura ben specifica e in continua evoluzione. Ma non solo, stiamo parlando dei nati dal 1997, quelli che oggi, al massimo hanno 26 anni, quelli che, da millennial, mi tocca chiamare giovani morendo un po’ dentro – anche se secondo alcune teorie, la gioventù ora dura fino ai quarant’anni, ma forse è più un rifiuto della crescita mescolato ai pregiudizi su determinate fasce d’età. Giovani con un senso del tempo ben differente. Una delle parole che si sente più spesso in relazione al mondo della contenutistica virtuale è “velocità”. Ecco la percezione di velocità varia in base all’occhio che guarda, per chi è nato con Tik Tok sotto mano il senso della velocità è differente. Per chi ha vissuto le rivoluzioni digitali è diventato automatico comprendere che il tempo si restringe e che i passi successivi sono sempre più vicini gli uni agli altri. E questo, appare come un ritmo normale. Ma quindi, il mondo contemporaneo,è condannato a un’incomunicabilità digitale? No, perché, come detto, le generazioni dialogano e si incontrano. Anzi, spesso sono proprio i membri più giovani delle famiglie a fare da ponte culturale,ad avvicinare gli altri alla loro normalitàed è questo, forse a essere un po’ singolare. Ne risultano delle generazioni della cura,coscienti del ruolo di mediatorie al contempo sufficientemente sereni dal sapere che la vicinanza non crea la presa dello spazio.Perché hanno universi digitali di scambio infiniti. Gettando un “ok boomer” mantengono la distanza, ma poi si prestano a fornire velocissimi tutorial. Qualcosa che, culturalmente, renderà obsoleto persino il guru dei boomer: Aranzulla. Sono i millennials e la gen z a far nascere le chimere, a unire i puntini di un mondo che scorre alla velocità dell’iperconnessione.