Upcycling: il riutilizzo ti rende alla moda

Upcycling: il riutilizzo ti rende alla moda

 

L’industria della moda inquina. E anche tanto. Il60%di tutti gli abiti che utilizziamo a livello globale sono realizzati conpoliestere, un materiale sintetico ottenuto con combustibili fossili e le cui fibre altro non sono chemicro plastiche:tonnellate di queste fibre finiscono ogni anno in mare. Questo significa che, continuando in questa direzione,entro il 2050nelle acque del pianeta ci sarannopiù plastiche che pesci. Ancora, il settore del fashion partecipa per il20% allo spreco idrico globaleeè responsabile del 10% delle emissioni totali di CO2a causa delle lunghe catene di approvvigionamento e della produzione ad alta intensità energetica. Se questi dati non ti hanno ancora portato a riflettere, fermati a pensare a qualcosa di più concreto e tangibile: per realizzareun solo paio di jeans, sono necessari circa10.000 litri di acqua,la stessa quantità che un essere umano beve in un lasso di tempo pari a 10 anni! Prova a moltiplicare tutto questo per lemilioni di tonnellate di jeans prodotte ogni giornonel mondo e poi rifletti ancora. La cifra indica la quantità di acqua che sfruttiamo quotidianamente per produrre un unico capo di abbigliamento. E probabilmente ti sarai accorto che è persino troppo difficile da leggere, e anche immaginare. Cos’altro serve per affermare con certezza che quello della moda è un settore industriale che ha un forteimpatto ambientalee che è in grado di colpire su più fronti diversi contemporaneamente? In un’ottica fast, di una moda veloce, che è arrivata a produrre52 collezioni l’anno contro le 2 collezioni tradizionali(primavera/estate e autunno/inverno), siamo arrivati nell’era degli abiti usa e getta,quelli sì di scarsa qualità, ma anche con un prezzo così basso da non farci pensare su due volte quando decidiamo di buttarli via e acquistarne nuovi. E intanto ildeserto di Atacama, in Cile, è stato trasformato in una discarica di vestiti usati, mentre nelle fabbriche i lavoratori produconosenza sosta e senza diritti. È chiaro, ormai, che stiamo andando incontro aun’autodistruzionee per evitare lo scenario peggiore si rende necessario uncambio di rotta immediato,una sterzata repentina verso quella che i professionisti del settore chiamanoeconomia circolaree che, per la moda, oggi si fonda su due pilastri: quello delrecyclinge quello dell’upcycling. Si tratta di 2 termini molto simili tra loro, ma che hanno a che vedere con due processi diversi che, tuttavia, condividono un unico obiettivo: portare lasostenibilità– quella vera, non di facciata – nel settore della moda. In particolare, il terminerecyclingindica un percorso diriciclo di un capo d’abbigliamento,in cui i singoli pezzi e materiali che lo compongono vengono smantellati, smistati e lavorati per creare qualcosa di nuovo, identico, simile o diverso dall’oggetto originario. È il caso dellefibre rigenerate,per esempio, che provengono da vecchi abiti e che, dopo un processo di lavorazione in fabbrica, possono essere utilizzate per produrre nuovi capi. Quando parliamo diupcycling, invece, ci riferiamo a una vera e propriapratica creativain cui un indumento che ha terminato il suo ciclo di vita come tale, viene trasformato in qualcos’altro senza dover rilavorare i materiali che lo compongono, in un ottica di riutilizzo sostenibile. È il caso, per esempio, di vecchi jeans tagliati e rielaborati per diventare una gonna. L’upcyclingha unimpatto ambientale quasi azzerato: non solo non produce emissioni di gas serra, ma riduce la quantità di rifiuti e indumenti gettati e frena significativamente la richiesta di nuovi capi d’abbigliamento da produrre, bloccando lacatena inquinante dell’industria. Saranno allora questi i motivi, insieme alla consapevolezza maturata diun’azione urgentee a un’attenzione sempre maggiore delle giovani generazioni (ma non solo) al tema ambientale, per cui sono decine lestart up emergentiche hanno come modello di business proprio il recupero di capi di moda e lə giovani artistə che di questo modello ne hanno fatto una passione da condividere sui social. Alessandra Alfieri, per esempio, ha creato il brandHelps Nature, un brand etico ispirato alla natura con cui realizza capi per bambini recuperando tessuti di pregio con una tecnica di patchwork creativo o utilizzando materiali sostenibili e organici che non danneggiano il pianeta. Margherita Caccavella, invece, ha lanciato lo studio di sviluppoMaiache lavora con artigiani, produttori e grossisti italiani per sviluppare e produrre capi d’abbigliamento in maglia, tessuti, jersey e accessori in pelle sostenibili. SuInstagram, poi, spopolano le creazioni di Nicole McLaughlin- una designer americana che trasforma oggetti di uso quotidiano in capi streetwear – o di Tega Akinola – una stilista che ha avuto l’illuminazione nei mesi di lockdown ed ha creato borse a partire da vecchie felpe e décolleté a punta utilizzando calzini Nike ormai lasciati da troppo tempo in fondo al cassetto – o, ancora, dell’italianaGloria Schito,fashion creatorda sempre sensibile al tema della sostenibilità, convinta sostenitrice deglioutfit sostenibili nel metaversoe stilista, sulla piattaforma di Meta, impegnata nella diffusione dell’upcyclingattraverso video di creazioni inventate da lei a partire da capi conservati nell’armadio, ma mai utilizzati. Si tratta, purtroppo, di poche voci fuori dal coro che, insieme, ancora non riescono a far arrivare il loro messaggio a quel pubblico vasto e sordo che continua ad acquistare per gettare. Così, i grandi colossi del fast fashion lavorano senza sosta e il Pianeta inizia a dare iprimi segni di cedimentoin un countdown che segna il punto di non ritorno.