De-influencing: nuova forma di pubblicità ingannevole?

De-influencing: nuova forma di pubblicità ingannevole?

 

I meccanismi dell’influencermarketingsono ormai chiari anche ai meno esperti all’utilizzo dei social network: personaggi noti sui social mostrano tramite i propri profili prodotti e servizi di qualsiasi genere, realizzando contenuti e copy accattivanti. Il tutto perinvogliare gli utenti ad acquistarlia loro volta, ingolosendoli magari con codici sconto epromozioni ad hoc. Se questi contenuti nascono come regalo fatto dal brand, normalmente sono contrassegnati da hashtag come“gifted”. Se, invece, sono realizzati in base a un contratto dicollaborazione, grazie al quale il creator percepisce un’utilità di natura economica, allora si tratta di una vera e propriasponsorizzazionee va segnalato agli utenti tramite diciture come“AD”o“ADV”.L’influencer viene quindi pagato per mostrare il prodotto o il servizio alla sua fanbase. Una forma dipubblicitàestremamente efficace, perchébasata sul rapporto di fiduciache si instaura tra creator e followers dove questi ultimi, percependo l’influencer come “qualcuno di famiglia”, sentono di poter seguire i suoi consigli con un certo grado di tranquillità; di potersi “fidare” del suggerimento. L’aggancio nell’influencer marketing fa leva proprio su questi sentimenti difamiliaritàefidelizzazione. Una strategia che, ormai, utilizzano numerose aziende più o meno strutturate. Chiunque di noi, anche chi non lo ammetterebbe mai, è stato almeno una volta“influenzato” da personaggi delweba fare un determinato acquisto. Il problema sorge dal fatto che, dopo tanti di dinamiche pressoché identiche tra loro, l’influencer marketing sembra esserearrivato a un livello di saturazione. Lo sanno bene loro, gli influencer, che da tempo lamentano un fortecalo nelle interazioni enell’engagement.Lo sanno anche i brand, che non vedono più salire il numero di vendite come un tempo, quando un prodotto finiva sold out in pochi minuti grazie a un tag strategico nelle storie della persona giusta. Lo sanno anche gli utenti, che risultano meno recettivi a contenuti brandizzati perché troppo spesso delusi in passato da acquisti che non hanno rispettato le loro aspettative. Facendo scemare, in questo caso, anche la fiducia riposta nell’influencer di riferimento. Le sponsorizzazioni, poi, sono spesso uguali tra loro e proposte in momenti paralleli e contestuali su tanti profili differenti e tra loro collegati. Come accade, a esempio, nel momento dilancio di un nuovo prodotto.Questo viene spedito e inviato a decine di influencer che devono spingerlo nello stesso identico momento, in un rimbalzare continuo dellastessa pubblicitàin modalità stereo, su un unico canale di comunicazione. Un canale che, però, dovrebbe essere dedicato all’intrattenimento e che così perde appeal nei confronti dei suoi stessi fruitori. Questi, infatti,bombardati da contenuti monotoni,iniziano a mostrare segni d’insofferenza: tendono a skippare e ignorare i contenuti contrassegnati dalla dicitura ADV o Gifted, quasi per stizza. Se fino a pochi anni fa, quindi, il “suggerimento” di un’influencer (più o meno disinteressato) veniva percepito come il consiglio di un’amica (o amico) fidata, ora la sensazione è quella di essere di fronte a una lungacarrellata di spot televisivi ripetitivi e invasivi. Ma il vento sta cambiando anche per i creator digitali. Questi, consapevoli della sensazione di insofferenza dei propri seguaci, hanno deciso di ribaltare le dinamiche dell’influencer marketing. Grazie alde-influencing. Il trend arriva daTikTok,in particolare dai creator americani: si mostrano prodotti (solitamente costosi) agli utenti suggerendo loro diNON comprarliper svariati motivi che vengono, di volta in volta, elencati. Se quindi l’influencer “tradizionale”, da una parte, cercherà in tutti i modi di mostrare i pregi di un determinato bene o servizio, su Tik Tok un de-influencer elencherà i motivi per cui quello stesso identico bene o servizio non vale i soldi spesi e potrebbe essere sostituito, con maggiore soddisfazione, da uno decisamente meno costoso. Sì, perché la caratteristica principale dei de-influencer è soprattutto quella disuggerire alternative più economicheosostenibiliai prodotti più costosi, in tendenza su altri profili. La nota stonata delde-influencingrisiede proprio qui: se i contenuti vengono creati per paragonare 2 prodotti, disincentivando l’acquisto di uno e promuovendo l’acquisto dell’altro, non potremmo pensare comunque a una forma di pubblicità, quella di un prodotto specifico più economico del primo? Il tutto reso appetibile da un paragone che fa gola agli utenti, perché sembra strizzare loro l’occhio, facendoli sentire compresi nella frustrazione di non poter acquistare il bene più ambito del momento sul web. Il problema potrebbe nascere nel caso in cui, effettivamente, ci fosse un accordo commerciale con il brand promosso, mostrato sempre a paragone di quello denigrato. Perché, ed è importante ricordarlo, in Italia esiste ildivieto di pubblicità comparativaa norma del D.lgs. 145/2007. La normativa vigente impedisce, quindi, al de-influencer di creare contenuti per comparare 2 prodotti, se uno dei due è frutto di una sponsorizzazione ufficiale. La domanda giusta riguardo il de-influencing, quindi, non è che cos’è e perché sta diventando virale. Ma piuttosto: parliamo di una forma di recensione disinteressata o di unnuovo influencermarketing,semplicemente meno trasparente e più accattivante di quello correttamente dichiarato?