Gendertrolling: la nuova frontiera degli attacchi misogini

Basta una rapida lettura ai commenti sotto i post di esperte e attiviste comeGiulia Zollino,Vera GhenooCarolina Capriaper rendersi conto cheil web può essere un posto orribile.Decine, se non centinaia di persone (uomini ma non solo) che si sentono in diritto e in dovere di muovere accuse e critiche, a volte insulti o minacce. Da quando le piattaforme digitali hanno iniziato a offrire la possibilità di interagire con perfetti sconosciuti nella comodità delle proprie case e nel completo anonimato, il problema dellaviolenzae degliabusicontro le donneha assunto caratteri particolari: secondo l’avvocataCynthia Koo, parliamo ditechnology facilitated gender based violence(Tfgbv). Secondo l’interpretazione della Tfgbv, i social media non si limitano a riflettere lamisoginiae la violenza che permeano la società, ma le amplificano e le trasformano in fenomeni, se possibile, peggiori, ancora più tossici, il cuitargetsono in primis ledonnee altrecomunità marginalizzate. Alla fine dello scorso anno, l’analisi pubblicata daForbesevidenziava comeledonnesiano sistematicamente più esposte degli uomini alla violenza online.Se poi consideriamo le donne impegnate in politica o le attiviste, la probabilità di subire abusi e molestie sul web si triplica rispetto ai colleghi maschi. Le prime, in particolare, sono bersaglio della cosiddettagendered disinformation:ovvero campagne mirate di fake news che hanno l’obiettivo di farle apparire inaffidabili, non abbastanza qualificate,troppo emotive, troppo poco intelligenti,troppo sessualizzateo “spiacevoli”, termine jolly per tutte quelle caratteristiche che vengono attribuite generalmente alle donne che rifiutano di farsi zittire e che vanno da “brutta” a “antipatica”, con molti altri termini (irripetibili) nel mezzo. Secondo Karla Mantilla, autrice del saggioGendertrolling: how misogyny went viral(Praeger, 2015, 268 pagine) lagendered disinformationfa parte di una strategia deliberata di forze illiberali e di destra per attaccare la credibilità delle proprie oppositrici, siano politiche, giornaliste, attiviste, perzittirlee “rimetterle al loro posto”. Le campagne di odio e digendered disinformationcolpiscono tutte, senza distinzioni,dai nomi più conosciuti a livello internazionale, come la deputata statunitense Alexandria Ocasio-Cortez o la candidata per la presidenza del Brasile Manuela d’Ávila, alle rappresentanti politiche di Paesi meno in vista sullo scenario mondiale, come nel caso diÁgnes Kunhalmi. Membro del partito Socialista ungherese e leader dell’opposizione, Kunhalmi è stata colpita negli anni da una serie dishit storm, in seguito alle aspre critiche che più volte aveva mosso contro il governo di Viktor Orban. Nel 2016 è stata falsamenteaccusata di abusare di alcol e droghe dopo aver risodurante una conferenza stampa. Nel 2018 sono stati diffusi poster che la ritraevano con l’hijab (la foto era stata modificata con photoshop) mentre prometteva lezioni gratis di arabo per bambini e, sempre nello stesso anno, il sito filogovernativoOrigoha pubblicato un articolo molto poco lusinghiero dove Kunhalmi veniva dipinta come una donna più interessata a “fare marmellate, dipingere la staccionata e prendere il sole invece che fare il suo lavoro di politica”. L’anno scorso è stata poi messa pubblicamente alla gogna online e accusata diaver finto il suo ricovero dopo aver contratto il Covid. Lagendered disinformatione le campagne di odio online contro le donne impegnate in politica e nell’attivismo non hannoeffettisolo sulle dirette interessate (effetti fra l’altro gravissimi, data la pressione mentale a cui sono sottoposte, dal momento che le minacce e gli attacchi spesso non riguardano solo loro ma anche altri membri della famiglia, persino minorenni) ma anchesulla salute dell’intera società. Il costante attacco alla credibilità e alle capacità delle donne nescoraggia la partecipazione politicaattiva e mette a repentaglio i valori che stanno alla base della stessa partecipazione: ildiritto all’uguaglianza ealla parola, l’inclusionee lademocraziastessa. Secondo il reportMonetizing Misogynyrilasciato da#shepersisted,una della cause principali del dilagare dellaviolenza sul webè il modo in cui sonocostruiti e gestiti i social media.Gli algoritmi infatti sono programmati per creare traffico e tenere gli utenti attivi sulle piattaforme per il maggior tempo possibile, finendo inevitabilmente per spingere i contenuti che attirano più interazioni e diventandoluoghi privilegiati della strumentalizzazione e della monetizzazione della violenza. “Le piattaforme digitali sono disegnate in modo dalasciare i gruppi marginalizzati sotto costante minaccia di rimozione dei loro contenuti, dalle discussioni su eventi di attualità alla denuncia di attacchi contro le loro comunità – si legge nel report, basato sulle interviste alle donne leader ed esperte di diversi Paesi, come Ungheria, India, Brasile, Italia e Tunisia – Allo stesso tempo, però, le regole sono costruite perproteggere gruppi di potere e account influentiche spesso sono i principali promotori di abusi online e offline”. Insomma, isocial mediahanno abdicato al loro iniziale “potenziale democratizzatore come centri di scambio di idee, diventando una versione moderna del cavallo di Troia, strumenti utilizzati per zittire e reprimere coloro che avevano promesso di supportare: donne, minoranze e attivisti per i diritti umani”. Solo un’azione congiunta a livello globalepuò davvero fermare questa ondata di violenza, sostengono le attiviste di#shepersisted. Servono regole internazionali e meccanismi di accountability cheverifichino l’operato delle piattaforme digitali,che le obblighino arispettare i criteri basedella democrazia e della libertà di espressione.Il che significa garantire questo diritto a tutti e a tutte, e non solo quindi a piccoli gruppi di potere, il cui obiettivo (spesso) è utilizzare questa libertà a proprio vantaggio: per schiacciare e zittire critici, critiche, oppositori e oppositrici.