I lavoratori dei musei guadagnano troppo poco

I lavoratori dei musei guadagnano troppo poco

 

Musei gratis, anzi, no: musei carissimi – i più cari d’Europa – tanto i turisti se lo possono permettere. Il patrimonio culturale più ricco al mondo, anzi no: i musei italiani sono all’ottavo posto della classifica Unesco. Musei per tutti, anzi, no: musei per (troppi) pochi. Deimuseiitaliani si dice tutto e il contrario di tutto. In mezzo a questo brusio di fondo di opinioni, dati, rumore, c’è però una certezza:i lavoratori del settore culturale del nostro Paese sono precari, sottopagati e senza diritti. Lo ha rivelato pochi giorni fa, in modo impietoso, il questionario dell’associazioneMi riconosci!:stipendimedi sotto gli 8€ l’ora, contratti civetta o inesistenti, discriminazioni (di genere, e non), sottomansionamento nonostante livelli di istruzione e qualifiche superiori alla media. Prima di discutere delprezzo dei biglietti, quindi, dovremmo probabilmente parlare dicome assicurare alle persone che lavorano nei musei stipendi e inquadramenti adeguati al costo della vita, che garantiscano – quando ci riescono – non solo la mera sopravvivenza ma dignità a un intero settore, oltre che alle singole persone senza i cui sforzi quel settore non esisterebbe. Eppure, oggii 25€ del biglietto di accesso agli Uffizi sono di 3 volte superiori allo stipendio orario della maggior parte dei dipendenti del settore. Le parole d’ordine diCultura 4.0, il piano di riforme e investimenti per l’attuazione del Pnrr – parliamo di fondi per 4,25 miliardi di euro – sono belle e importanti:digitalizzazione, abbattimento delle barriere fisiche e cognitive, transizione verde, rigenerazione, innovazione, ripresa. Parole che servono – come mostrano, per fare un esempio i dati dell’Osservatorio dell’Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali del Politecnico di Milano secondo cui il sistema culturale ha bisogno di sviluppare anche le tecnologie basilari – ma che lasciano indietro altre parole senza le quali le fondamenta di ogni progetto rimangono di argilla:assunzioni, arricchimento degli organici, internalizzazione. Ma è vero che i musei italiani costano meno? Partiamo da qui: cidicono che è necessario alzare il costo dei biglietti per allinearci a quelli degli omologhi stranieri, che sono più costosi e in cui le gratuità sono minori.Ma è vero?Impossibile il parallelo con Paesi come il Regno Unito, i cui principali musei, dalBritish MuseumallaNational Gallery, sono gratuiti, ma guardando ai cugini che ci somigliano di più (Spagna e Francia) le cose non sembrano esattamente così. Iniziamo dai prezzi: ilPradocosta15€, ilLouvre17€. Al Reina Sofiasi entra con12€, la stessa cifra per il biglietto più economico delMusée D’Orsay, che raggiunge i16€per il più costoso. Situazione simile per ilCentre Pompidou(massimo18€per l’accesso al museo e alle esposizioni temporanee). E da noi?Non solo gliUffiziche, ormai lo sappiamo, in alta stagione toccheranno la cifra record di 25€ (38€ nel biglietto combinato con i Giardini di Boboli, più 4€ di prevendita online), ma anche altri siti culturali più (il Colosseo) e meno (Mann di Napoli) celebricostano più dei musei oltreconfine, con cifre che partono da 18€ a salire. E legratuità o le tariffe agevolate? Nei musei statali italiani entrano gratis under18, insegnanti, studenti e docenti universitari di materie storico-artistiche, guide turistiche, interpreti, giornalisti, disabili con accompagnatori, dipendenti delMic(Ministero della Cultura) e militari delNucleo Patrimonio Culturale. Da 18 a 25 anni i cittadini Ue pagano solo 2 euro. La situazione non è molto dissimileall’esterodove peròsono previste più agevolazioni: non solo orari durante i quali l’accesso è gratuito per tutti, ma anche per categorie che da noi pagano prezzo pieno, tra cui disoccupati, famiglie a basso reddito epensionati. Persino la tanto odiata e amatadomenica gratis non è un’iniziativa esclusivamente italiana: il Louvre, tanto per fare un esempio, è gratis la prima domenica di ogni mese e così molti altri musei francesi, mentre inSpagnaci sono generalmente fasce orarie quotidiane (più estese la domenica) in cui tutti possono accedere senza pagare il biglietto. Biglietti più cari, stipendi più alti? Si dice che è necessario aumentare il costo degli ingressi per adeguarsi agli standard europei ma questo, come abbiamo visto, non è del tutto esatto.L’adeguamento dei prezzi, però, potrebbe essere necessario per tutelare i lavoratori,andando a colmare quel deficit economico che impedisce un giusto riconoscimento sia dal punto di vista economico che contrattuale.Sarà così? Non proprio,anche in questo caso. Come spiega il comunicato dell’Unione Sindacale di Base, “ci piacerebbe leggere gli stessi proclami, gli stessi riferimenti a questioni morali quando si parla di internalizzare e stabilizzare il personale che da anni presta servizio nel settore, o di garantire retribuzioni e contratti adeguati a chi, in appalto per 4-5€ lordi l’ora, mantiene aperti, fruibili e sicuri ogni giorno i luoghi della cultura. Chi guadagna sulla cultura italiana non sono i lavoratori né lo Stato, ma i privati che grazie alla Legge Ronchey del 1993 si sono accaparrati i cosiddetti servizi aggiuntivi. Biglietterie, bookshop, didattica, visite guidate, accoglienza e controllo accessi, diritti di prevendita: gran parte dei ricavi finisce nelle tasche delle aziende che hanno soppiantato le istituzioni nella gestione dei beni culturali”. La leggea cui fa riferimento Usb è quella cheregola alcune delle attività collaterali ai musei– come bookshop, guardaroba e caffetteria –permettendoche a gestirle siano i soggetti privati.Una legge ampliata nel 2004 dalCodice Urbani dei beni culturali e del paesaggio, che ha allargato i servizi aggiuntivi fino a includere accoglienza, audioguide, visite guidate, laboratori e didattica, mostre, pulizie, vigilanza. A guadagnare dall’aumento degli introiti, quindi, non sarebbe tanto lo Stato– e conseguentemente i lavoratori – ma proprio i fornitori di servizi privati, che sono per la maggior parte grandi cooperative che si spartiscono ampie fette del mercato. Come avevano spiegato Laura Pasotti e Benedetta Aledda in un’inchiestadel 2021, infatti, la quota di incassi che va nelle casse dalle Soprintendenze, a esempio, nel 2019 era circa del 12%.