Non c’è abbastanza cibo nel mondo. O forse no

Questo 2023 è iniziato con circa50 milioni di persone in più colpite da acuta insicurezza alimentare,seguendo un trend che, a partire dal 2020, non ha fatto che crescere in maniera esponenziale. Se nel2020erano circa282 milionile persone colpite, nel2022hanno raggiunto la cifra di345 milioni. Verrebbe quindi da pensare che non si produca abbastanza cibo. La crisi climatica non gioca a nostro favoree sta compromettendo gli approvvigionamenti attuali tanto quanto quelli futuri. Per esempio, gli storici produttori di granaglie – Cina, Giappone e Corea del Sud in testa – stanno registrando corposi cali produttivi a causa dell’instabilità climatica e del crescente inquinamento da ozono. Si parla di una perdita annua pari a 63 miliardi di dollari. La produzione, solo in Cina, è in caduta libera con un calo del 33% della produzione. Il grano è la materia delleguerre, dellafame, quelle che stiamo già combattendo senza saperlo, a suon diland grabbing, espropriazioni e invasioni. Sì, perchéuna delle principali risorse dell’Ucraina è proprio il grano. Russia e Ucraina insieme realizzano circa il 25% della produzione globale, con annesse esportazioni. Il controllo sulle granaglie in un futuro di fame e meteo instabili è un’assicurazione sulla vita per gli Stati. Un calcolo che sarebbe ingenuo pensare sia sfuggito alle mire di Putin. Là dove non arrivano acquisti e trattati subentrano invasioni e instabilità che hanno il potere di propagare a macchia d’olio conflitti di cui nel mondo occidentale non si vuole parlare. InCongo, a esempio, la combinazione sta diventando letale. Nel 2022 il prezzo crescente della benzina ha portato all’imposizione di razionamenti che hanno causato code interminabili congestionando Kinshasa. Allo stesso tempo, l’aumento del prezzo del panee la scarsità di rifornimenti derivanti dalla guerra in Ucraina – da cui il Congo dipende per il 15% delle sue importazioni di grano – si sono realizzate nella richiesta di dimissioni del ministro dell’economia Jean-Marie Kalumba. Alla fragilità economica si è aggiunto ilrischio per la sicurezza dei civili.Il 28 marzo un elicottero Onu è stato abbattuto nella regione di North Kivu e l’esercito della Repubblica Democratica del Congo aveva subitamente attribuito l’attacco al gruppo ribelle M23, formato principalmente da disertori di etnia Tutsi, il cui portavoce aveva però dichiarato l’esatto contrario asserendo che era proprio l’esercito a essere responsabile dell’abbattimento. Anche il gruppo integralista Adf aveva ripreso le attività, con un attacco, perpetrato a colpi di machete, che è costato la vita a ben 14 persone. L’acuirsi della violenza e le difficoltà economiche hanno spinto ingenti masse di persone a lasciare il Paese.Nei primi mesi del 2022, l’Onu contava circa 10.000 sfollati nel suo primo centro in Uganda e circa 40.000 sfollati interni. La crisi umanitaria è evidentemente connessa a due beni la cui disponibilità è intaccata direttamente da conflitti e crisi climatica. Quello che verrà, il futuro che ci attende con una prossimità crescente, però, rischia di essere persino più crudo. Infatti, non si tratta solo di reperibilità, ma anche diconsistenza dei prodotti alimentari.La qualità degli animali, intesa come loro capacità nutritiva, si sta progressivamente riducendo a causa dell’entità produttiva e dellaprecarietà di terreni e clima. Secondo le stime,abbiamo a disposizione ancora pochi – circa 6 – giri di raccolto prima di avere terreni impossibilitati a seguire i regimi di produzione.Abitiamo una Terra stanca,crivellata di conflitti e perforature fossili, piena di persone e animali che soffrono la fame. Attualmente i terreni a reddito producono circa un quarto delle emissioni di carbonio, e occupano circa il 38% della superficie globale. Iterrenisono impiegati per3 usi principali:coltivazione (28%), colture permanenti (3%) e prati e pascoli permanenti che occupano circa il 69% del totale.Guerre e clima stanno definitivamente depauperando il nostro futuro alimentare.Dalle catastrofi in Pakistan all’inasprimento di eventi come la Nina, dagli incendi alla desertificazione, la crisi climatica viene definita moltiplicatore di minacce, ma è anche un abile alleata di crisi geopolitiche, a cui si intreccia saldamente. Ne risulta che oggi, con circa59 conflitti in corso e una temperatura giunta a + 1,3° sui livelli preindustriali,il terreno coltivabile e abitabile si riduce in maniera esponenziale ogni giorno. La diretta conseguenza sono lemasse migrantie i numeri crescenti dipersone che soffrono la fame del mondo.C’è un grosso fattore, un elefante nella stanza, che però non viene spesso nominato nella conta delle catastrofi, che è il paradosso della sovra-alimentazione occidentale e della ripartizione delle risorse destinate a tale produzione. Infatti,produciamo ogni anno calorie per circa 10 miliardi di persone. Se i conti dell’Onu non errano, siamo da poco giunti a una popolazione umana mondiale di8 miliardi di persone. E se, di nuovo, la matematica non è opinabile,abbiamo una produzione di calorie che potrebbe sfamare almeno altri 2 miliardi di persone.Eppure, secondo le stime delWorld Food Program,almeno 349 milioni di persone in questo momento soffrono la fame. Com’è possibile? Semplice, basta seguire i percorsi produttivi. Infatti, se circa il 33% della terra coltivata è usato per alimentare i miliardi di animali destinati al consumo umano, chiaramente qualcosa non quadra. Soprattutto se si considera che il consumo di animali aumenta all’aumentare della ricchezza. Quindi, al momento attuale,stiamo producendo cibo per la cui coltivazione vengono impoveriti terreni ed emesse tonnellate di gas serra, per alimentare le bestieche verranno consumate dal minimo percentile dell’umanità, il più ricco. In parole ancora più crude,la nostra produzione sta nutrendo l’industria carneo-lattiero-casearia,sottraendo risorse presenti e future a persone e animali. Potrà pure sembrare che al mondo non ci sia abbastanza cibo, ma forse quello che manca è un interesse concreto a nutrire la popolazione mondiale nella sua interezza. Perché i numeri non mentono e le morti nemmeno.