L’Italia non è un Paese per donne

L’Italia non è un Paese per donne

 

Che il nostro non sia un Paese per donnenon è una novità. Quanto siamo lontani dal raggiungimento della parità di genere, però, non è mai stato lampante come negli ultimi giorni, in cuitre reportusciti a brevissima distanza dedicati a tre diversi ambiti –violenza di genere, parità e lavoro- hanno mostrato con una chiarezza allarmante quanto ancora la strada verso un Paese più giusto ed equo per tutte e tutti sia ancora in salita. La violenza sulle donne parla italiano e ha le chiavi di casa: il rapporto annuale D.i.Re. Secondo ilreport annuale di D.i.Re. (Donne in Rete contro la violenza), le donne che si sono rivolte aicentri antiviolenzasono state20.711 nel 2021: sono il 3,5% in più rispetto al 2020. Soprattutto, sono l’8,8% in più le donne che non lo avevano mai fatto e che, per la prima volta, hanno chiamato un CAV. Quasi la metà di loro ha un’età compresa tra i 30 e i 49 anni. Tra le donne accolte meno di una su tre (il 28%) decide di denunciare, una percentuale che è rimasta sostanzialmente costante negli anni. Una percentuale che colpisce, ma non stupisce, visto che il rischio della vittimizzazione secondaria è sempre presente nel contatto con le istituzioni e continua a frenare molte donne nella possibilità di affidarsi alla giustizia. Non solo: in molti casi subentrano anche fattori di tipo economico: una donna su tre, infatti, è a reddito zero e solo il 37% (tra occupate e pensionate) può contare su un reddito sicuro. Dal report emerge anche un altro dato, che conferma quelli degli anni precedenti e sconfessa ancora una volta la leggenda ripetuta da (alcuni) politici e media secondo cui le donne dovrebbero temere “gli extracomunitari” (con tutti i controsensi con cui il termine viene utilizzato) o, per i più nostalgici, “l’uomo nero”: le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza sono prevalentemente italiane (l’84%) e nella stragrande maggioranza dei casia essere italiano è anche l’autore della violenza, che solo in 27 casi su 100 ha provenienza straniera. Ma c’è di più:nove volte su dieci,infatti,il maltrattante non è un estraneo, ma una persona che ha una relazione affettiva con la vittima: nel 56,7% dei casi è il partner, nel 23,1% l’ex partner, nell’11,1% un familiare. Oggi no, domani nemmeno, tra 132 anni sicuramente. Cosa dice il Gender Gap Index 2022 Se le cose non vanno bene sul fronte della violenza di genere, non si può dire che la condizione femminile sia più rosea sul fronte della parità. Secondo i dati delGlobal Gender Gap Index 2022delWorld Economic Forum, infatti, l’Italia non ha fattoalcun miglioramento nella riduzione del divario di genere. Rispetto al 2020, infatti, i passi avanti sulla strada della parità tra uomini e donne sono stati così piccoli (pari allo 0,001) da essere impercettibili. Immobile nella sua arretratezza, al 63esimo posto dopo Uganda e Zambia e appena sopra la Tanzania, il “bel” Paese rimane lontano non solo dalle altre democrazie europee che guidano la classifica – Islanda, Finlandia e Norvegia – ma anche dai paesi con cui siamo soliti confrontarci: siamo 46 posizioni sotto la Spagna (17esima), 48 sotto la Francia (15esima) e ben 53 sotto la Germania (decima). C’è da dire che dal punto di vista dei miglioramenti dell’ultimo anno siamo in ampia compagnia: secondo l’analisi, delle 146 economie mondiali esaminate solo1 su 5 è riuscita a ridurre il divario di generedi almeno l’1% nell’ultimo anno. Peccato che l’Italia faccia sempre parte delle quattro che non lo hanno fatto e che, anzi, registrano percentuali irrisorie. Anche le prospettive per il futuro non lasciano ben sperare:per ridurre il divario di genere nel mondo ci vorranno addirittura altri 132 anni.Un dato migliore di quello dello scorso anno (in cui erano 136) ma ancora lontanissimo dall’essere anche solo minimamente accettabile, soprattutto dopo l’impatto devastante dellapandemia,che ha riportato le lancette indietro di una generazione: non solo, infatti, le donne hanno subito di più il peso della quarantena (perdendo il lavoro in misura doppia rispetto agli uomini) ma sono state anche le più penalizzate nel post-lockdown. Una nota positiva è quella dell’Europa nel suo insieme, che ha il secondo livello più alto per parità di genere (76,6%): per il Vecchio Continente, il tempo stimato per colmare il divario è di “soli” 60 anni. Innovazione non è sinonimo di parità: le donne nel tech secondo Boston Consulting Group e Women’s Forum Se questo è lo scenario non sorprende quello che emerge dal terzo report legato alla condizione femminile uscito negli ultimi giorni, ilrapportodelBoston Consulting GroupeWomen’s Forumdal titolo“The Network Effect: How Women Beat the Odds to Get to the Top in Tech”. Secondo l’indagine, realizzata su oltre 1.500 donne e uomini che ricoprono ruoli apicali nel settore tecnologico o nelle divisioni tech delle imprese in Francia, Germania, Italia e Regno Unito, le donnefaticano di più per ottenere lo stesso riconoscimentodegli uomini anche in un settore che immaginiamo caratterizzato da apertura e innovazione. A parità di ambizione – o quasi: le donne che dicono di volere un aumento di carriera nei prossimi 3 anni sono il 47% contro il 42% degli uomini – di competenze e di volontà di assumersi dei rischi, infatti, le donne non riescono a far corrispondere al desiderio di carriera un effettivo avanzamento professionale: solo il17% delle donnemanagerha cambiato più di cinque lavorinel corso della propria storia professionale, contro il 22% degli uomini. Questo perché nel loro cammino verso la leadership la maggior parte delle donne deve affrontaresfide che gli uomini non incontrano. Non solo ci sonopochi mentoriche possano aiutarle e sostenerle; le donne subiscono unamaggiore pressioneper dimostrare le loro abilità rispetto agli uomini, in particolare per quanto riguarda proprio le competenze tecnologiche, il che significa che le donne sentono di dover lavorare di più per lo stesso riconoscimento. Afrenare la leadership femminile neltech,però, è anche un fenomeno ben poco innovativo e ormai noto in tutti i campi lavorativi: molte donne hannoresponsabilità di caregiving– verso bambini, anziani o persone con disabilità – che si traducono in lunghi periodi di assenza dal lavoro. Sebbene sia uomini e donne siano d’accordo che un lungoperiodo di assenzao il part time abbiano un impatto negativo sulla carriera (in Italia lo pensano il 57% degli uomini e il 50% delle donne), solodue uomini su 10utilizzano questi strumenti. Le colleghe che lo fanno sono 5 su 10, la metà.