Ascoltiamo i nostri bimbi

A fine maggio è stato firmato unProtocollo d’Intesatra la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli e il Comitato Italiano per l’Unicef, per latutela della salute mentalee delbenessere psicosociale deiminori, una delle priorità di azione individuate da Unicef a livello nazionale e internazionale. Questa notizia mi ha fornito lo spunto per condividere una riflessione sul tema, venuto prepotentemente alla ribalta in questi ultimi anni a seguito dellapandemiae della drammaticaguerrache sta coinvolgendo l’Europa. Bambini e bambine rappresentano la categoria più soggetta a traumi, non solo fisici ma anche e soprattutto psicologici, capaci di provocare vere e proprieferite all’anima,spesso molto profonde. Ferite che colpiscono la mente, stravolgendo la quotidianità sia nel modo di vivere che in quello di vedere la realtà. Avvenimenti apparentemente distanti e non collegati tra loro (l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, lo tsunami che colpì l’Oceano Indiano nel 2004, le immagini delle terapie intensive trasmesse ovunque nel corso della pandemia e, più recentemente, quelle di bambini e anziani ucraini che abbandonano le proprie case alla ricerca di un posto sicuro) rappresentano veri e propri disastri con un elemento comune: l’impatto negativo sulle personeche, direttamente o indirettamente, ne sono vittime. In particolare sulle più vulnerabili:bambini e bambine. Nel nostro Paese, al sicuro nelle nostre case, non siamo immuni dai traumi indiretti che con l’avvento dellenuove tecnologie comunicativesi ripercuotono anche su chi non ne è interessato in prima persona, ma assiste a immagini e notizie con un impatto emotivo forte. Questo vale specialmente per i più piccoli, che non hanno l’abilità e l’esperienza per gestirle. E qui una prima considerazione:non lasciamo i nostri figli solia interpretare e metabolizzare le notizie o le immagini che potrebbero generare in loro uno stress emotivo e psicologico. I bambini si affidano a chi li accudisce per affrontare la vita e hanno estremobisogno di essere rassicuratie ricevere spiegazioni plausibili per accogliere eventi spiacevoli e insoliti. Ipiccolihannodifficoltà a verbalizzare le proprie emozionie le esprimono con sintomi diversi a seconda della fascia di età. Quelli al di sotto dei sei anni, per esempio, sperimentano in genere dei sensi di colpa, sentendosi responsabili di ciò che accade. L’idea che elaborano è: “se fossi stato più buono e avessi ubbidito ai miei genitori, questa cosa brutta non sarebbe successa”. E allora vengono fuori irrequietezza, agitazione, scatti di rabbia, paura del buio, difficoltà nel dormire. Dopo i dieci anni, essendosi sviluppato un pensiero concreto ma non avendo ancora la capacità di comprendere gli eventi, rispondono concomportamenti regressiviquali l’enuresi notturna o la suzione del pollice oltre che a perdita dell’appetito, dolori addominali, cefalea, difficoltà in ambito scolastico. A tal proposito una seconda considerazione:non sottovalutiamo mai i segnali di disagiodei nostri bambini. Il pediatra escluderà con la sua visita cause organiche ma sta ai genitori riferire eventuali situazioni di stress. Impariamo aascoltare i bambininon soltanto con le orecchie ma con il cuore. La pandemia da COVID-19 ha portato alla luce moltissime situazioni di disagio. La cosiddettacoronafobiaha infatti accentuato i sintomi di ansia in chi ne era affetto, determinando comportamenti come l’ossessivo lavaggio delle mani, l’eccessiva cautela nel distanziamento, un uso esagerato dello smartphone per i contatti sociali che da reali sono diventati virtuali. In particolare, nei bambini affetti da disturbi dellospettro autistico, da deficit dell’attenzione e da iperattività, il peggioramento dei sintomi è stato drammatico. Un’ultima considerazione:si vince con il lavoro di squadra.Per gestire al meglio lasalute mentale dei piccoli c’è bisogno di un lavoro che coinvolga caregivers, scuola, pediatra. Le informazioni vanno comunicate ai bambini in maniera aperta e sincera tenendo ovviamente conto dell’età. I genitori, o comunque chi è più vicino, dovrebbero impegnarsi a trascorrere più tempo con i ragazzicoinvolgendoliin giochi all’aperto, sport, puzzle per minimizzare l’esposizione ai media, soprattutto nel caso di piccoli e piccole. La scuola dovrebbe dal canto suo promuovere attività di classe che aiutino acomprendere gli eventi traumaticie a stimolare le eventuali richieste di aiuto. Il pediatra ha il fondamentale ruolo di individuare precocemente i segni iniziali di un distress e di formare la resilienza dei piccoli pazienti sensibilizzando le famiglie sull’importanza di avere relazioni intrafamiliari positive e di un ambiente favorevole. Concludo con un’ultima frase tratta da un articolo scritto da Lewis e Ippen nel 2004 dal titolo “Rainbows of Tears, Souls Full of Hope”: “[…] nonostante le lacrime del trauma, le anime dei bambini sonopiene di speranza”.