Capire di più, sottovalutare di meno

È di questi giorni il rapporto diAmref Health Africa – Italia, predisposto in collaborazione con i ricercatori dell’Osservatorio di Pavia, Africa MEDIAta sullascarsa attenzione che i media italiani dedicano all’Africanonostante l’importanza che questo continente riveste nel pianeta sotto molti punti di vista (ampiezza del territorio, popolazione, concentrazione delle risorse naturali. crescita demografica). La cosa lascia perplessi sotto vari profili, dal momento che l’Italia, per vicinanza territoriale e un mare di mezzo, come altri Paesi del Mediterraneo, è tra i primi a essere esposta a quanto succede in Africa, anche e non solo in termini dimigrazionisempre più forzate per lacrisi climatica. Il punto è singolare: se infatti da una parte nei vari convegni d’affari si tende quasi sempre a definire l’Africa quale terra di opportunità e l’Italia come un hub sull’Africa, omettendo poi di considerare che per essere un vero hub l’Italia dovrebbe avere unarete di voli efficientesulle principali città dei vari Stati (come a esempio ha fatto la Turchia), dall’altra parte l’Africa è spesso considerata in chiavecharitye non come terra con la quale creare relazioni sempre più strette in una logica di continuo scambio, occasione di crescita di reciproco interesse. Si pensi a esempio a quanto sta facendo il Regno Unito che, in carenza di personale infermieristico in patria, ha lanciato programmi di collaborazione con ilKenyaper attrarre gli operatori sanitari specializzati, quando noi stentiamo (o non abbiamo pensato affatto) a fare partire un programma di scambi che possa condurre in Italia i vari esperti informatici che lo stesso Kenya laurea con flusso costante e grande qualità, mentre nel contempo i media italiani lanciano l’allarme sull’assenza sempre più grave di figure specializzate nel settore deldigitale. In realtà è esperienza di chi scrive, che molto del nostro approccio si basa sull’assenza di conoscenza diretta e su una narrazione ben distante dalla realtà e fin troppo mediata: ciò accade a vari livelli, a partire dall’opinione pubblica sino a giungere ai nostri stessi apparati statali e parastatali. E così se si prova a costruire un programma di scambi culturali o professionali, subito c’è chi teme che i professionisti e gli specializzandi africani, una volta giunti in Italia non vogliano più tornare in patria (dimenticandosi che nella maggiore parte dei casi si tratta di persone di estrazione elevata, chevedono nello scambio all’estero un’opportunità di crescitae non di emigrazione da essi non cercata né desiderata). Così, non si costruisce una rete di relazioni che possa supplire alle deficienze dei vari Stati creando quella ricchezza che poi riverberebbe anche sulle classi meno agiate, non spingendole all’emigrazione. Per le stesse ragioni, mentre i cinesi offronocorsi di linguasin dalle scuole elementari (in Uganda, Kenya, Tanzania e molti altri stati), noi stentiamo a offrire corsi di italiano almeno ai laureati nel timore che poi essi vogliano trasferirsi da noi. Quello che manca in effetti, non è soloattenzione sull’Africama anche laqualità della narrazione, troppo mediata, affidata com’è alla traduzione dei quotidiani in lingua inglese o alle varie ong che rappresentano la loro Africa per esigenze umanitarie e di raccolta fondi, senza avere scambi con le classi dirigenti se non per finalità legate alle opere caritatevoli, oppure infine ci affidiamo ai rappresentanti della diaspora: persone spesso venute in Italia in giovane età e che hannolegamicon la terra d’origine più su basi di parentela che su base istituzionale (come se il Nord America si affidasse ai nostri emigrati per avere rapporti con l’Italia). Per questa ragione sarebbe opportunocambiare approccio, a partire nell’intensificazione degli scambi culturalie da unanarrazione diversa, fatta dagli stessi africani che vivono in Africa. Ed è proprio per questa ragione che stiamo aiutando un gruppo costituito recentemente dagiovani professioniste africane, che vivono in Africa, per raccontare la loro Africa, attraverso un vero e proprio network (HER Media Networkbasato in Kenya e Uganda e aperto ad altre professioniste dell’Africa orientale) che producepodcast, video e informazioni rivolti al pubblico locale, ma anche articoli da fare pubblicare sulla stampa italiana e in generale straniera, al fine di consentire una conoscenza diversa e aumentare il reciproco rispetto: perché solo dalla conoscenza e dal rispetto reciproco si può partire per creare unosviluppo sociale equo e sostenibile. Mario Di Giulio, responsabile dell’Africa Desk di Pavia e Ansaldo Studio Legale e Vice presidente di The Thinking Watermill Society