Prevedere il futuro delle foreste: la storia di Giorgio Vacchiano

 

Leggere leforeste. Interpretarne i segni, osservarne le ferite e registrarne i cambiamenti, per prevedere il futuro che le aspetta e aiutarle a rimanere forti e resilienti anche di fronte allacrisi climatica, così che possano continuare ad aiutare noi, esseri umani, a sopravvivere. È il lavoro, bellissimo oltreché fondamentale, diGiorgio Vacchiano, ricercatore in pianificazione forestale all’Università di Milano, che nel 2019 è stato incluso daNaturenella lista degli 11 miglioriscienziatiemergenti al mondo. Alla sua esperienza è dedicato il documentario “Il seme del futuro” della regista Francesca Frigo, che sarà proiettato questa sera al cinema Massimo di Torino nell’ambito del festivalCinemAmbientedi Torino. Per l’occasione, abbiamo fatto una chiacchierata con il protagonista. Come nasce “Il seme del futuro”? Il film parte dal mio libro “La resilienza del bosco”, pubblicato nel 2019 per Mondadori. La regista Francesca Frigo, dopo averlo letto, mi ha contattato proponendomi di raccontare in un documentariola storia delle forestee del loro rapporto con noi esseri umani. Il progetto, finanziato dalla Film Commission della Valle d’Aosta e da quella di Torino, è nato inizialmente come undocumentarioin quattro episodi per la Rai regionale. Quando abbiamo deciso di farne un lungometraggio, il pretesto narrativo è diventata la mia personale avventura scientifica, un viaggio di scoperta attraverso le foreste. Un viaggio che, come racconti nel film, parte dalla tua infanzia. Esatto, la mia passione per le foreste è nata infatti dalla casa inValle d’Aosta, affacciata sul bosco, dove trascorrevo le vacanze da bambino. Ma in realtà da piccolo volevo fare il contadino. La passione per lescienze naturaliè arrivata solo in seguito, e in particolare la decisione di studiare Scienze forestali la devo a un mio professore, di cui mi colpì soprattutto una frase: «Il forestale – diceva – lavorainsiemeallaNatura, per il bene di tutti». Avevo sempre pensato che la Natura si potesse solo studiarea distanza, come un oggetto separato da noi. L’idea di poter “lavorare insieme”, di poter creare un legame costruttivo con il mondo naturale fu una rivelazione tale che mi spinse a iscrivermi a Scienze forestali solo per capire cosa volesse dire. Oggi lavori come ricercatore in gestione e pianificazione forestale. Cosa significa “pianificare” una foresta? Unpiano forestaleè un progetto redatto da un professionista, che fotografa la situazione di un certo territorio boscato e programma una serie di azioni per proteggerlo e gestirlo al meglio. Il piano ci dice quanto sono estese le foreste, che specie dipianteci sono e a che velocità crescono, quantalegnaè possibile prelevare in modosostenibile. Ci dà conto anche delle vulnerabilità: qualeclimala foresta sperimenterà tra qualche anno, quali rischi sono più probabili, a esempioincendi, frane,siccità. La seconda parte del piano è costituita dalle azioni da fare: una volta si trattava perlopiù di pianificare il taglio del legno, oggi si fanno varie operazioni per rinforzare la foresta e renderla più resiliente alleminacce climatiche. Perché abbiamo bisogno di aiutare le foreste? Non sono più in grado di auto-regolarsi? È proprio questo il punto. Eventi che possono sembrarci catastrofici per un bosco, come un incendio o una tempesta, hanno in realtà sempre fatto parte delladinamica degli ecosistemi. Se sono arrivate fino a noi, vuol dire che le foreste hanno sviluppato dei modi per reagire e per non farsi distruggere completamente, a esempio rinascendo grazie ai loro semi dopo il passaggio di unincendioo addirittura ricrescendo dallo stesso ceppo, come fanno alcune specie dilatifoglie. Il problema oggi è che questi fenomeni stanno cambiando rapidamente per effetto dellacrisi climatica. Glieventi meteorologici estremiaumentano in frequenza, in intensità e in capacità di fare danni. E se fino a ieri una foresta riusciva a reagire a un incendio che arrivava una volta ogni secolo, quando improvvisamente l’incendio comincia a verificarsi ogni 20 o 30 anni, lestrategie di adattamentosviluppate nel corso di migliaia di anni non bastano più e non si fa in tempo a trovarne di nuove. Ecco perché le foreste sono in pericolo, così come sono a rischio le cose che fanno per noi. Cioè i servizi ecosistemici. Quali sono nello specifico? Si possono dividere in tre gruppi. Ci sono iservizi di produzione, ovvero tutti prodotti materiali della foresta: non solo illegno, ma anche, a esempio, le castagne, i pinoli, i funghi, i tartufi. E ancora, l’acqua potabile, che viene purificata proprio dalle foreste. Poi ci sono iservizi di regolazione, che contribuiscono alle condizioni per la nostra sopravvivenza: protezione dalle frane, assorbimento di una certa quantità di anidride carbonica, mitigazione delle ondate di calore in città, assorbimento delle piogge intense e persino dell’inquinamento da polveri sottili. La terza categoria riguarda aspetti più immateriali, ma essenziali alla nostra specie: sono iservizi culturali. Durante illockdownci siamo accorti quanto ci mancasse il contatto con il verde e di come sia indispensabile per il nostro benessere fisico e mentale. E poi pensiamo a quante storie, culture e religioni da sempre ruotano attorno agli alberi e alle foreste. Tutti questi servizi sono spesso dati per scontati e rischiamo di accorgerci della loro importanza solo nel momento in cui verranno a mancare. Parliamo dell’Italia: qual è la situazione delle nostre foreste? Ce ne prendiamo abbastanza cura? Ci sono due buone notizie e una cattiva. La prima buona notizia è che leforeste italiane coprono ormai il 40% del Paesee si stanno espandendo, colonizzando gli spazi che noi abbandoniamo, soprattutto nellearee montane. Questa espansione ha un grande potenziale, perché significa chepossono assorbire più carbonioe possono fare dahabitatper il ritorno di specie come il lupo. La cattiva notizia è che questa crescita non le mette certo al riparo dagli stress climatici, dalla siccità e dagli incendi, che stanno aumentando: prevediamo che a metà secolo l’area percorsa dal fuoco a livello nazionale sarà dal 25 al 40% superiore rispetto a quella di oggi. E purtroppo la pianificazione, l’unico strumento in grado di tenere in conto tutto questo e programmare le azioni necessarie, è ancora poco diffusa e riguarda solo il 15% delle foreste italiane. C’è però la seconda buona notizia: da pochi mesi abbiamo unaStrategia forestale nazionale, la prima italiana e una delle primissime in Europa. La Strategia stabilisce le priorità per i prossimi vent’anni e ha messo la pianificazione al primo posto, tanto che il Mipaaf ha appena stanziato 420 milioni di euro da qui al 2035 per ampliare i piani e migliorare la gestione delle foreste. Insomma, per prenderci cura di questo 40% di territorio che è rimasto un po’ trascurato. Alla fine del film dici che dobbiamo trovare una “formula” per programmare le foreste. Qual è questa formula? Un parte della formula è il piano, l’altra è costituita daimodelli matematiciche usiamo per provare a prevedere che cosa succederà a una foresta in condizioni mai sperimentate. Fino a solo una ventina di anni fa ci insegnavano a considerare il clima come una costante nella vita delle foreste, il che significava che per capire come sarebbero cresciuti gli alberi bastava semplicemente guardare a come lo avevano fatto nel passato. Ora non è più così, il clima è tutt’altro che costante. Perciò dobbiamo insegnare a un computer come vive e come muore un albero e fare un esperimento che in natura non si può fare: cioèalzare il termostato del climae vedere come rispondono le foreste. Questi modelli, un po’ come si fa per le previsioni del tempo, iniziano così a essere usati per prevedere il futuro delle foreste e capire quali interventi mettere in atto. Un’ultima domanda. Nel tuo libro inviti le persone a ispirarsi ai modelli di resilienza delle foreste. Che cosa possiamo imparare da un bosco da applicare alla nostra vita? Possiamo imparare innanzitutto che il mondo è fatto di relazioni, che siamo comunità. Una foresta è comunità: non importa che muoiano o vengano abbattuti degli alberi, se altri crescono al loro posto e la foresta continua a esistere come ecosistema. Spesso, quando vado in giro nelle scuole o faccio interventi pubblici sul cambiamento climatico, arriva sempre la domanda: “Ma io nel mio piccolo cosa posso fare?” È bello che arrivi questa domanda, ma è quel “nel mio piccolo” che non mi convince. E allora rispondo: “Guarda che non sei piccolo e non sei solo”. Nella lotta al cambiamento climatico dobbiamo imparare ametterci insieme, perché le azioni più forti sono quelle che possiamo fare inmodo coordinato: o dal basso, oppure chiedendo tutti insieme ai governi di agire. Ma possiamo farlo solo se percepiamo la comunità e la rete di relazioni che ci lega, proprio come gli alberi in un bosco.