Non si circola bene in America

 

«L’economia circolare è un’opportunità per l’America»,così esordisce nella plenaria d’apertura diCircularity22Joel Makeowen, vulcanico fondatore diGreenBiz, colosso della comunicazione e degli eventi sulla sostenibilità statunitensi. È straripante la sala da 800 posti del Hotel Intercontinental di Atlanta. Tanti giovani, soprattutto donne, molti affiliati a grandi brand. Coca-Cola, Nike, Amazon, EY, Lego, Dell, Samsung, Jll, Walmart, Sodexo, e tanti altri. Un evento a 360 gradi,dalla sfida delle plastiche al fashion sostenibile,dal retail all’elettronica, dal diritto alla riparazione al mondo degli ESG per aziende circolari. La sensazione, però, lasciandosi alle spalle due giorni di convegni brillanti e ben organizzati,è di profonda inquietudine. Gli Stati Uniti, il più grande consumatore al mondo, hanno un serio problema: sono estremamenteindietro nell’economia circolaree in generale nellatransizione ecologica. Accanto all’entusiasmo delle grandi multinazionali e degli addetti ai lavori, nei coffee break emerge chiaramente il parossismo americano: i consumi continuano ad aumentare sempre più e iprocessi di riciclo, riuso, riparazione e riduzione rimangono una goccia nell’oceano. Le aziende stanno abbracciando percorsi di sostenibilità, ma spesso – per amissione di vari intervistati – sono progetti pilota, che interessano meno del’1% della produzione. Male anche sulladecarbonizzazione: gli Usa rimangono tra i Paesi con il più alto volume di emissioni pro-capite, nonostante i (pochi) sforzi delgoverno Bidene le emissioni nel 2021 sono tornate a crescere. Un colosso lineare Gli Stati Uniti sono uno deimaggiori produttori di rifiuti al mondoe, in quanto tale, la gestione dei rifiuti è una delle principali industrie del Paese. Un mercato da 208 miliardi di dollari dove però la metà degli affari è legata allediscariche, che ricevono più del 50% dei rifiuti. Il 24% dei 292 milioni di tonnellate viene avviato a riciclo, anche se una parte vieneinviata all’esteroper il processamento, molto spesso in Paesi dove la gestione dei rifiuti non è affatto regolamentata. La legge vigente sui rifiuti si rifà alResource Conservation and Recovery Act(RCRA) del 1976e il sistema è decisamente obsoleto, con tante contee dove ancora si butta tutto insieme, vetro incluso. I regolamenti e gli standard variano di Stato in Stato, addirittura di contea in contea. «Attualmente in USA ci sono circa9.000 programmi di riciclo, tutti indipendenti», spiega Keefe Harrison, CEO di Recycling Partnership, una realtà imprenditoriale che lavora per uniformare processi e accelerare schemi di raccolta. «Un ostacolo per migliorare i risultati sulla raccolta differenziata e sul riciclo». Quasi inesistenti gli schemi EPR, gli schemi di responsabilità estesa del produttore, ovvero deiprogrammi che rendono un produttore responsabile dell’intero ciclo di vita dei prodottiche introduce sul mercato, dalla produzione e progettazione fino alla gestione e allo smaltimento. Al momento si è a conoscenza di solo due schemi EPR a livello statale. Senza EPR è difficile ottenere risultati importanti come sta accadendo in Europa per vetro, carta, rifiuti elettronici, plastica, e via dicendo. Prendiamo gliolii esausti.In Italia il CONOU, il consorzio degli oli usatiraccoglie quasi il 100%. In USA ci sono solo aziende private che fanno la raccolta e la rigenerazione, spesso in maniera non professionale. Non mi ha sorpreso il cartello a un benzinaio Sunoco, scritto a mano, recitante “Ritiro olio lubrificante usato”. Sui consumi poi ancora peggio:parlare di riduzione e riuso è assolutamentetabooin un mondo iper-corporativo come quello americano. Anche solo pensare di abbassare l’aria condizionata è una violazione della liberta di consumare americana. Un segnale positivo viene invece dallecampagne per il diritto alla riparazione, che hanno trovato un consensobi-partisan, visti gli importanti impatti sul lavoro anche nelle aree rurali. Per Page Motes di Dell Tecnologies, intervenuta a Circularity22 «ci sono grandi opportunità economiche in questo ambito dell’economia circolare, e siamo solo all’inizio». Il segnale più inquietante all’evento di Atlanta è la totaleassenza del settore pubblico. Con l’eccezione di alcune realtà (come Phoenix), non si sono visti esperti dell’EPA, l’Agenzia per l’Ambiente USA o addetti alla gestione dei rifiuti pubblica. Sulla gestione dei materiali critici il profilo rimane basso, anche se i vari settori ne hanno riconosciuto l’importanza e avviato schemi a livello di corporation. Per alcuni materiali (cobalto, terre rare, ma recentemente anche per il latte in polvere), la Casa Bianca ha chiamato in causa ilDefense Production Act, una risoluzione dell’epoca della guerra fredda dove il Presidente ha potere di imporre decisioni d’imperio su alcune specifiche industrie per razionare i beni e bloccare l’export (con buona pace del dogma del mercato libero neoliberista). Una soluzione emergenziale che potrebbe essere evitata con un’applicazione a larga scala di modelli di economia circolare. Una soluzione diplomatica Come risolvere la questione americana? Mentre in queste settimane ci si lagna dell’ingerenza americana e del vassallaggio miliare, in Europa servirebbe invece costruire un’iniziativa diplomatica, commerciale e di comunicazione nei confronti degli USA persostenere una transizione ecologica e circolare americanache ède factoferma al palo. Un’iniziativa congiunta, di cooperazione,collaborativa. Gli esempi più stimolanti ad Atlanta sono arrivati soprattutto da esperti e aziende europee, che hanno fatto emergereil gap che perdura tra le due sponde dell’oceano. Per le ambasciate dunque è importante, anche a scopo commerciale e strategico, creare un’iniziativa congiunta europea di esportazione dei modelli di economia circolare. C’è grande attenzione per la compliance dei regolamenti EU nel mondo industriale americano, innegabile e inevitabile. Serve un’azione però di sostegno a policy pubbliche, di grande visione, chepossa sostenere l’industria europea nel mercato USA. Servirebbe un nuovo atlantismo non basato sulla collaborazione militare attraverso la Nato, ma su un quadro internazionale dipartenariatocirculare green, che metta insiemepubblico e privato, fungendo da base di cooperazione per iniziative comuni, dalla riduzione dell’estrazione di materie prime a nuovi modelli d’impresa circolari. I tempi sono maturi. Attendiamo che si risolva la questione russa. Dopo di che la diplomazia e il mondo del commercio internazionale si metta in moto, creando unnuovoWTOcentrato su una visione dell’economia circolare.