Come sta la comunità LGBT+ al lavoro
IstateUNAR(Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) stanno portando avanti unprogetto di ricercasullediscriminazioninei confronti della comunitàLGBT+ in ambito lavorativoe sullediversity policiesattuate dalle imprese per il rispetto della comunità stessa. Secondo i risultati dell’ “Indagine sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+ in unione civile o unite in passato” (realizzata nel 2020-2021 e che ha coinvolto oltre 21.000 persone residenti in Italia), il 26% delle persone omosessuali o bisessuali intervistate ha dichiarato che il proprioorientamento sessualeha rappresentato unosvantaggioin almeno uno degli ambitilavorativiconsiderati: avanzamento dicarriera, riconoscimento e apprezzamento delle propriecapacità,retribuzione(in questo caso, in maniera meno rilevante). Il 12,6%non si è presentatoo candidato a un colloquio di lavoro per paura che l’ambiente lavorativo potesse essere«ostile»al proprio orientamento sessuale. Per contestualizzare meglio il risultato, il report Istat ha proposto una definizione riguardo al «clima ostile in ambito lavorativo» contro le personeLGBT+, includendovi casi dicalunnia,derisione, umiliazioni, aggressioni(anche verbali),esclusionivolontarie da mansioni / riunioni / incontri / conversazioni, offese conavancesessuali,minacce. Circa una persona su tre ha riportato episodi diouting(quando una persona rivela l’orientamento sessuale di un’altra senza il suo consenso) e quasi il 62% ha subitomicro-aggressioninell’attuale o ultima occupazione (come offese verbali, domande riguardo la propria vita sessuale e avance sessuali non richieste). Forse è per questo, per evitare di cadere in queste situazioni, che circail 40% ha preferito evitare di parlare della propria vita privataa lavoro, così datenere nascostoil proprio orientamento sessuale. L’indagine ha anche analizzato chi sono ə principaliconfidentidelle persone LGBT+ intervistate e discriminate sul lavoro. Al primo posto c’è lafamiglia(60,8%), seguita daəamicə(53,7%). Per quanto riguarda le persone interne all’impresa, ci sonocolleghədi pari grado (42,2%) e, a volte,datorədi lavoro e superiori (24,4%). Pochissimə hanno scelto di rivolgersi aorganizzazioni sindacali(10,5%), legali (6%) o LGBT+ (1,4%). È bene ricordare che questi risultatinon sono rappresentativi dell’intera comunità LGBT+ma, come spiega il report, solo «di una piccola parte che ha voluto unirsi civilmente e che si caratterizza per un’elevatavisibilitàrispetto al proprio orientamento sessuale». La ricerca si è anche concentrata sulle imprese attive neldiversity management(DM), ovvero nell’implementazione di politiche e iniziative chevalorizzino ladiversitàdeə lavoratorə, oltre a quelle già previste per legge. Nel 2019,solo il 5,1% delle imprese(con 50 dipendenti e più) ha adottato una qualche misura didiversity managementa favore della comunità LGBT+. Più nello specifico, il 3,3% di queste aziende ha permesso aə proprə dipendenti di utilizzare servizi igienici, spogliatoi e simili rispettando la propriaidentità di genere, il 2% di esprimere liberamente e pubblicamente la propria identità di genere per lepersone transgender,mentre l’1,6% ha adottato misure a hoc per letutela della privacydeə lavoratorə transgender che hanno intrapreso il percorso di transizione prima dell’arrivo nell’impresa. Sul fronte opposto, risultano essere ancorapoche le occasioni formativesulle tematiche LGBT+ per il top management (1,3%) e ə lavoratorə (1,2%), così come glistrumenti internididiversity managementa tutela della comunità LGBT+. Le imprese che hanno deciso di adottare misure ulteriori rispetto a quelle già previste dalla legge hanno indicato quali motivazioni principali lavolontà di prevenire atti discriminatorie di favorire ilbenessere, lasoddisfazionee lamotivazionedeə dipendenti. Per quelle che, invece, non hanno mai adottato simili misure, la scelta è stata dettata dal fatto che«non ne è emersa la necessità», che «le misure di legge già approvate sonosufficienti», che «l’ambiente di lavoro ègià inclusivo» o che «l’inclusione LGBT+ non richiedemisure ulteriori» rispetto a quelle previste per ə altrə lavoratoə. Se da una parte per ə stakeholder intervistatə queste politiche didiversity managementdevono favorire nella pratica uncambiamento di tipo culturale(e quindi non rimanere solo una formalizzazione teorica), dall’altra credono anche che ilprincipale attoredel cambiamento rimanga comunque l’istituzione pubblica. Un pensiero condiviso anche dalle persone omosessuali e bisessuali inunione civile(ora o in passato) intervistate: quasi il 78% ha spiegato che sono necessarie nell’ambito lavorativoattività di formazione, sensibilizzazione o campagne sulla diversità LGBT+ organizzate dalle istituzioni pubbliche. Ma servono anche misure a caratterepiù generale, che quindi superino il contesto lavorativo della singola impresa: «Attività di formazione alle tematiche LGBT+ devono essere dedicate adifferenti attori(datori di lavoro, operatori sanitari, insegnanti, dipendenti pubblici, ecc.), ma soprattutto sono ritenute necessarie iniziative di educazione, informazione e sensibilizzazione alle tematiche LGBT+a partire dalle scuole», si legge nel report. «Ampio accordo è dato a favore di unalegge nazionale contro l’omolesbobitransfobia, diritti per lefamiglieLGBT+tra cui il riconoscimento legale di entrambi i genitori per i figli di coppie omogenitoriali. Viene inoltre segnalata la carenza di leggi e iniziative a favore delle persone transgender, non binarie e intersessuali e l’importanza di unalettura intersezionaledelle differenze», conclude.