Un’arma climatica contro Putin
La guerra in Ucraina ha sparigliato le carte degli equilibri energetici mondiali eaperto nuovi, incerti, scenari per ladecarbonizzazione.Aumenti dei prezzi, corsa alla diversificazione degli approvvigionamenti, riscoperta del carbone, ritorno dell’atomo, corsie preferenziali alle rinnovabili. Basta vedere il caos generato dallostop di qualche giorno fa alle forniture di gas in Bulgaria e Poloniada parte di Mosca. L’azione ardita ha fatto di nuovo schizzare i prezzi, favorendo così Putin che in questa fase ha bisogno di quante più risorse economiche possibili. E appare oramai evidente che l’uso dell’energia come arma economica contro la Russia rischia di essere estremamente complicata e impattante sull’economia europea (dunque quella mondiale), soprattutto se usata impropriamente.Si urla troppo, manca il sangue freddo. Pensare semplicemente di fermare l’acquisto dell’energia fossile russa non è di per sé un’arma. Infatti iprezzi stellari del gas e del petroliosui mercati globali per tutto il 2022 (e forse anche parte del 2023) che deriveranno dall’inevitabile escalation energeticafavoriranno i Paesi asiatici, che potranno accedere a un prezzo calmierato alle risorse russe invendute. In questo modo Putin continuerebbe ad avere un afflusso costante di risorse minimizzando gli impatti delle sanzioni. Per fermare la corsa dei mercati energetici delle energie fossili serveun’arma-fine-di-mondo: una rigida politica climatica sulle emissioni a livello globale. Perché? Provo a spiegarlo. Mai come in queste settimanel’Accordo di Parigisui cambiamenti climaticioffre una sponda importantissima nel tentativo di fermare l’insensata invasione russa. Se dagli Usa, dall’Ue e dal resto delle nazioni schierate contro la Russia arrivasse un segnale per un phase-out delle fossili (stop ai mezzi a combustione entro il 2035 oppure un annuncio importante sui consumi di metano), spingerebbe le grandi aziende dell’oil&gas aaccelerare la vendita degli assete darebbe un boost fortissimo al settore delle rinnovabili, portando a realizzarein 12 mesi quanto in uno scenario normale servirebbero 5 anni. In questo momento non c’è un migliore amico di Putin diJoe Manchin, il senatore democratico che habloccato il piano Biden per la decarbonizzazione,Build Back Better,o di politici comeSalvini o Calenda, che piangono per la pace ma spingono per aumentare i consumi di fossili. Ora arriva il difficile: la vendita degli asset aumenterebbe però l’offerta di fonti fossili sul mercato,incrementando nel breve termine i consumi e dunque le emissioni,rendendo più difficile raggiungere gli obiettivi a breve termine sulla riduzione delle emissioni. Si tratta di unparadossoinevitabile. In questo scenario il mare di petrolio e gas che verrebbe immesso sul mercato soprattutto da quei Paesi con importanti riserve (Emirati e Arabia Saudita) sarebbe unaspina nel fianco per Vladimir Putin, poiché potrebbe costare fino a 9 punti di PILe eliminare un terzo delle risorse economiche pubbliche, necessarie per pagare i professionisti nell’esercito e mantenere l’ordine nelle istituzioni. Per compensare l’effetto collaterale della manovra, ovvero il conseguente aumento delle emissioni della sbornia fossile, servirebbe a quel punto sostenere uno sforzo sovrumano sul medio termine diincentivi senza precedenti su solare, eolico, efficientamento energetico e mobilità non fossile,finanziato proprio – paradossalmente – dal surplus fossile convenzionale. Con prezzi davvero ridotti sui veicoli elettrici, in uno scenario di abbondanza di benzina e prezzi contenuti, si potrebbe avere competizione andando a invertire la curva delle emissioni al 2030, rendendo a quel punto operativimeccanismi finanziari globali sui prezzi della CO2(mercati delle emissioni o carbon tax), comeprevisto proprio dall’Art.6 dell’Accordo di Parigi. Ecco ilrisultato ipotizzabile: la Russia in ginocchio, il mercato delle fossili sempre più nel panico,risorse ingenti per la transizione ecologica giusta (cioè accessibile anche ai ceti più bassi, come a esempio il sostegno all’efficientamento energetico domestico delle abitazioni dei più poveri) e dopo qualche anno di crescita delle emissioni di gas climalteranti (che sarebbe in ogni caso inevitabile fino al 2025) si vedrebbero i risultati di questa azione globale. Per poter realizzare uno schema di questa complessitàserve innanzitutto unità politica.Se in Europa le ultime settimane hanno visto importanti segnali di unità, in Nord America, dove a esempio i repubblicani americani farebbero di tutto pur di difendere l’industria statunitense del gas e petrolio, rimane da costruire una forza tale in grado da portare avanti un piano così complesso quanto necessario.Difficile anche includere la Cina, o persino l’Indiada sempre chiare sulla responsabilità storica nelle emissioni di gas climalteranti del mondo occidentale. Eppure un meccanismo internazionale, entro cui persino la Russia è inserita, esiste. Ed è esattamentel’Accordo di Parigi, operativo e ben definito.Nell’Accordo esistono numerosi meccanismi per finanziare questa immensaoperazione di transizione ecologica globale come arma fine-di-mondo contro lo Zar.Per sostenere la pace non servono le bandiere ai balconi quanto fare scelte a basse emissioni di CO2. Sfruttando il miglior risultato mai ottenuto dalla diplomazia globale e dalle Nazioni Unite, con buona pace dei critici da tastiera di questo importante meccanismo.