Ambiente

La diatriba senza fine sulle bioplastiche compostabili

Con la pubblicazione del report “Altro che compost!” di Greenpeace, si è levato un coro di protesta contro le posizioni dell’organizzazione ambientalista. Giudicate troppo severe verso una alternativa al derivato dal petrolio
Riccardo Liguori
Riccardo Liguori giornalista
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22 maggio 2022 Aggiornato alle 08:00

Non si è fatta attendere la risposta dei protagonisti della filiera industriale e del riciclo delle bioplasticheAssobioplastiche e Biorepack – e dell’organizzazione rappresentativa degli impianti di riciclo organico, il CIC- Consorzio italiano dei compostatori, alle affermazioni di Greenpeace contenute nel report “Altro che compost!”. Sul banco degli imputati, le bioplastiche compostabili.

“Greenpeace Italia ha preferito usare argomenti artificiosamente infondati e parziali che puntano a distruggere un’innovazione pensata per migliorare l’ambiente e per questo accolta positivamente dalla maggioranza degli ambientalisti italiani”. In una nota congiunta, i due consorzi Assobioplastiche e Biorepack hanno voluto “ristabilire la verità” rispetto ad alcuni affermazioni proposte dall’organizzazione ambientalista italiana.

“I materiali in bioplastica compostabili sono nati proprio sotto la spinta delle normative europee, che dal 1994 prevedono il riciclo organico degli imballaggi compostabili assieme all’umido (direttiva 94/62/CE)”.

All’affermazione di Greenpeace, in base alla quale la maggior parte della sezione organica confluisce in impianti non in grado di trattare in modo appropriato i materiali in plastica compostabile, i due consorzi hanno puntualizzato che l’impiantistica dedicata al riciclo dei rifiuti organici “si conferma una filiera qualificata ed efficiente nella gestione degli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile” e che gli impianti di riciclo che non trattano le bioplastiche compostabili rappresentano, come ha spiegato anche il CIC, “poche eccezioni, dovute a particolari sistemi di pretrattamento”.

Riguardo al dato proposto da Greenpeace, secondo cui nel nostro Paese il 63% della frazione organica è inviata in impianti anaerobici che “difficilmente riescono a degradare la plastica compostabile conferita in questa filiera”, i due consorzi hanno risposto che secondo il Rapporto sui rifiuti urbani 2021 dell’Ispra, la digestione anaerobica pesa per il 5,1% mentre il 48,1% della frazione organica è trattato negli impianti di compostaggio e il 46,8% negli impianti integrati, “che hanno la fase di compostaggio dopo quella di digestione”.

A questo proposito, il CIC ha spiegato che “la quasi totalità degli impianti accetta e gestisce senza alcun problema la presenza di manufatti in plastica compostabile nel flusso di organico conferito, sia nel caso di processi biologici di solo compostaggio che nei processi integrati digestione/compostaggio”.

“Piuttosto che fare una crociata contro le bioplastiche, occupiamoci di capire cosa dà veramente fastidio al compost (e ai processi per produrlo) e lavoriamo per risolvere le eventuali criticità che esistono negli impianti causate dall’elevata presenza di materiali non compostabili nel rifiuto umido – non certamente dalle bioplastiche che peraltro del rifiuto umido fanno parte e ne rappresentano una percentuale bassissima”, è la richiesta che arriva dalla filiera del compostaggio.

Sul tema di questa diatriba si è espressa anche la vicepresidente della Commissione Ambiente della Camera Rossella Muroni. A suo avviso, quella biodegradabile e compostabile è una plastica che rappresenta una eccellenza made in Italy. Proprio per questo motivo, attaccarla sarebbe un autogol. «Il riuso e la riduzione dei rifiuti sono l’opzione preferibile, ma quando non è possibile avere prodotti riutilizzabili le plastiche biodegradabili e compostabili sono una soluzione amica di ambiente e buona economia».

In una nota, Muroni ha spiegato che, a tal proposito, l’Italia vanta il primato di Paese più avanzato nella raccolta differenziata della frazione organica. Cioè la destinazione finale delle bioplastiche biodegradabili e compostabili recuperate negli impianti di compostaggio e in quelli che producono anche biometano.

«Il caso shopper insegna: siamo stati i primi a mettere al bando i sacchetti in plastica, misura che insieme alla promozione del riuso ci ha permesso di ridurre i sacchetti per l’asporto merci di circa il 70% tra il 2007 e il 2020. Per questo primato tecnologico e normativo il recepimento italiano della direttiva Sup ha escluso dal suo campo di applicazione la plastica biodegradabile e compostabile. Una filiera da alto tasso di innovazione e sostenibilità che impiega circa 2.800 addetti».

Secondo Francesco Ferrante, ex direttore generale di Legambiente e dal 2009 vicepresidente del Kyoto Club, «Greenpeace ha sempre avuto un atteggiamento sospettoso sulle bioplastiche compostabili, che ritiene essere la scusa con cui sostituire i prodotti tradizionali monouso. Purtroppo, l’organizzazione ambientalista non coglie due fattori essenziali: l’innovazione tecnologica (bioeconomia) non si serve più di fonti fossili, bensì rinnovabili, per realizzare prodotti chimici. Inoltre, grazie al primato sulla raccolta dell’umido, abbiamo la possibilità di gestire in chiave sostenibile la filiera delle bioplastiche dall’origine al termine del suo ciclo di vita. Una volta conferite nell’umido, le bioplastiche compostabili vengono portate poi nei digestori anaerobici per diventare biometano».

Tra gli errori di Greenpeace, che Ferrante ha segnalato alla Svolta, c’è il solo ed esclusivo riferimento alle stoviglie di bioplastica compostabile, il considerare la promozione delle bioplastiche compostabili come sostituto a tutto ciò che oggi si realizza in plastica tradizionale. Eppure, come hanno sottolineato Biorepack e Bioplastiche nella loro nota congiunta, “nessun attore della filiera delle bioplastiche in Italia ha mai promosso la sostituzione 1:1 della plastica monouso con la bioplastica monouso. Piuttosto, si sono promossi quei prodotti (come i sacchetti) pensati come specifiche soluzioni ai problemi cagionati dalla presenza nell’umido di materiali non compostabili».

Ferrante ha poi spiegato quello che, a suo avviso, è l’altro errore rilevato nel documento di Greenpeace: aver voluto parlare solo con quegli impianti che presentano qualche difficoltà tecnologica a trattare il residuo, «ma che sono una minoranza. Viceversa, la maggior delle altre strutture non riscontra queste criticità».

In ogni caso, secondo Ferrante il problema non sono le bioplastiche compostabili ma il rifiuto umido contaminato dalla plastica tradizionale.

Proprio per questo, secondo Ferrante, dovremmo concentrarci sul miglioramento della qualità della raccolta differenziata. «Altrimenti, sarà sempre più difficile distinguere i materiali. Inoltre, se si applicasse un sistema di raccolta porta a porta che premia il cittadino che produce meno rifiuti (è il principio della tariffa puntuale), incentiveremmo un approccio più virtuoso alla gestione dei rifiuti».

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