Ambiente

Clima di guerra

Gli equivoci della questione energetica nel contesto bellico. Le difficoltà della comunicazione. E il problema epistemologico del futuro
Credit: Jeremy Bezanger/Unsplash
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12 maggio 2022 Aggiornato alle 06:30

L’equivoco è evidente. La questione della transizione energetica non cambia in tempo di guerra o in tempo di pace. È evidente che il clima non tiene conto della provenienza del gas o del petrolio che si brucia nell’atmosfera, generando CO2.

È evidente, ma lo si dimentica facilmente. Sembrerebbe che ci siano delle vere e proprie difficoltà cognitive per comprendere la situazione. Da che cosa dipendono?

Eppure è semplice, in apparenza. Per affrontare l’emergenza climatica occorre ridurre le emissioni e basta. Tanto prima, tanto meglio. Invece, l’anno scorso è stato quello con le maggiori emissioni causate dall’attività umana che si sono mai registrate nel corso della storia, secondo i dati di Copernicus. L’urgenza non è mai stata più elevata. E la discussione pubblica non è mai stata tanto confusa.

Il dibattito che si è creato sulla sostituzione del gas e del petrolio russo che arriva in Europa, segue uno schema vagamente irrazionale: l’urgenza geopolitica è diventata un’urgenza economica e ha incredibilmente spiazzato l’urgenza climatica.

Seguendo questo filo di pensiero si è dedicata molta attenzione a trovare altro petrolio e altro gas per sostituire quelli russi e poca attenzione ai tempi reali e possibili dell’abbandono definitivo e generale dei combustibili fossili. Ci si poteva aspettare che il ragionamento andasse alla rovescia: l’abbandono del gas e del petrolio è un obiettivo urgentissimo e se si creano le condizioni geopolitiche che rendono conveniente accelerare su questa strada è bene coglierle.

Il confronto tra i tempi tecnici delle varie strategie è abbastanza istruttivo. In ballo ci sono alternative più o meno ragionevoli: tempi lunghi per passare dalla dipendenza dai gasdotti russi all’uso di rigassificatori, ma conseguenze in termini di emissioni del tutto negative; tempi lunghissimi per le nuove forme del nucleare un po’ più sane ma non ancora tecnologicamente pronte; tempi brevi ma quantità progressive per l’aumento delle rinnovabili, con risultati però eccellenti in termini di emissioni; tempi brevi per qualche forma di risparmio, indotto da razionamento o da prezzi elevatissimi dell’energia, con vantaggi climatici ma anche rischi di recessione per rallentamento della produzione industriale; tempi più lunghi per il massiccio ricorso alle batterie e altre forme di accumulazione di energia da rinnovabili per stabilizzare l’offerta.

Ma intanto i tempi del cambiamento climatico incalzano e chiariscono le priorità, almeno in teoria: l’indipendenza dal gas russo si persegue cercando di raggiungere l’obiettivo dell’indipendenza da qualsiasi gas.

Le difficoltà cognitive sono comprensibili. Un sistema complesso come quello climatico non si concepisce facilmente. Le conseguenze del riscaldamento non sono presenti nell’esperienza delle persone. Gli interessi incrociati generano narrative alternative, convincenti più per via di abilità comunicative che per capacità dimostrative. I politici - nella migliore delle ipotesi - cercano di barcamenarsi tra le urgenze del ciclo elettorale di breve termine, i problemi di carriera di medio termine e il bene comune di lungo termine. Non è facile destreggiarsi per i cittadini in questo contesto.

Prima di tutto, appunto, è difficile pensare un sistema complesso. La sostituzione del gas russo con un altro combustibile fossile proveniente da qualche altro posto è una questione economica e geopolitica, ma non ha alcun impatto sulla traiettoria che sta portando il pianeta a surriscaldarsi: la World Meteorological Organization (WMO) ha appena calcolato che nei prossimi cinque anni la Terra raggiungerà il grado e mezzo di aumento della temperatura rispetto all’epoca preindustriale, con un 48% di probabilità.

L’ultima parte del calcolo è la meno digeribile. Dimostra che la riduzione del ricorso ai combustibili fossili è la più urgente delle soluzioni ma soltanto probabilisticamente.

L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) aveva in passato sostenuto che la temperatura media del pianeta avrebbe stabilmente raggiunto un aumento di 1.5 gradi, probabilmente entro 20 anni. In questo caso il termine importante è “stabilmente”: il calcolo del WMO fa notare che in un un anno dei prossimi cinque ci sarà probabilmente una temperatura superiore a quella preindustriale di 1,5 gradi, il calcolo dell’IPCC riguarda il raggiungimento di una condizione del genere in modo stabile.

Che cosa significa tutto questo? Gli scienziati giustamente raccontano quello che vedono. E pensano in modo probabilistico. Il dibattito pubblico invece tende a cercare certezze, per molti motivi. Come si risolve? Forse la semplicità non deve necessariamente essere rimozione o banalizzazione. Sappiamo che la temperatura sta salendo e sta per superare la soglia del 1,5 gradi. E sta salendo per i gas-serra che ogni anno gli umani emettono nell’atmosfera. Ogni anno, ogni mese, ogni giorno è buono per ridurre le emissioni.

A questo punto sorge il prossimo problema cognitivo. Se non si riducono le emissioni e la temperatura sale che cosa succede? Le probabilità di disastri immani aumentano. Questo è certo. Ma non è certo dove si verificheranno i disastri e a chi toccherà pagarne le conseguenze.

Il futuro è imprevedibile e si tende a immaginarlo in modo piuttosto variegato, disattento, interessato: molti banalmente proiettano i loro desideri nel futuro, o le loro paure. Desideri e paure che sono alimentati dalle narrative più o meno interessate delle aziende, dei partiti, delle organizzazioni non governative, e così via, in un contesto mediatico nel quale gli algoritmi di raccomandazione delle piattaforme rischiano di accelerare la frammentazione dei punti di vista e la radicalizzazione delle opinioni.

Il futuro non è prevedibile ma le narrative che gli umani accettano di fare proprie servono a immaginare le conseguenze delle azioni: il problema è superare i limiti delle narrative alternative e trovare un terreno comune, magari coerente con quanto scoperto dalla scienza, ma la soluzione non è ovvia. La media ecology si sta sviluppando in questo senso, ma il suo impatto non è ancora sufficiente.

Il nuovo Global Risk Report del World Economic Forum, un’analisi globale sui rischi percepiti condotta nella comunità dei 13.000 esperti del Forum, peraltro prima della guerra in Ucraina, è una lettura istruttiva perché connette le diverse dimensioni del rischio globale. E per esempio mostra come le crisi recenti, politiche, economiche, ambientali, sanitarie, si siano tradotte in un peggioramento dei rischi che riguardano i meccanismi di inclusione sociale e in un aumento delle distanze tra le popolazioni più o meno ricche di conoscenze e di opportunità di sviluppo. Proprio mentre gli umani dovrebbero pensare insieme, le distanze che li separano aumentano.

Il risultato è che le scelte politiche, che devono tener conto di rischi incrociati, trade off complicati, conoscenze limitate, sono obiettivamente difficili: le promesse elettorali sono sempre piene di soluzioni, il governo è sempre pieno di problemi.

Tra le mille forme di aggiustamento che gli umani si troveranno a sperimentare nel corso di questo XXI secolo ce n’è una puramente culturale: impareranno a pensare i sistemi complessi. Oppure li subiranno.

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